Giovanni Cavazzon
Sorelle mie - P.P.S Editrice – Parma, 1995

Dalla prima fiaba decifrata, ho sempre cercato il Luogo eroico in cui, insieme adaltre, colte, fantasiose o pragmatiche, canore o furibonde, mute, in risa o lacrimanti, speranzose, imbronciate, decrepite o puberi, atteggiate o disinvolte, in ogni caso disponibili, lavorando sodo e con criterio le parole, ritessere segretamente la vita.
Scoperto il Luogo, possiamo imbandire io e le mie sorelle, impalpabili infiniti “pranzi di Babette”, ingredienti le parole, morte o appena nate, dimenticate o logore per l’uso, raccolte dalla sapienza ma individuate dal nostro cuore e sostenute da una severissima vocazione. Meta di questo mistico camangiare è l’attuazione di una Nuova, che, per bellezza, profetazione, antinomia e, dunque, gioia di libertà, sveli, anche solo per una frazione illusoria, l’enigma della Natura, la Grande Dea Madre, che ci richiama oggi alla luce protagoniste, dagli ànditi sotterranei dove il nostro Pensiero, la nostra Etica, fingevano di sopire smembrate da tutti gli “episcopi”.
Il Luogo è la Poesia, ma c’è da capire quale.
Ci fu un Tempo mitico in cui la società patriarcale, sopraffatta dai “nuovi barbari”, consegnò il Vello nelle mani di Giasone e nascose il significato del Graal dentro il tabernacolo. Rimise i propri simboli affinché non fossero cancellati e, con essi, affidò anche le arpe e le cetre, i monogrammi arborei, l’astratta procreatività di un alfabeto. Gli uomini, intuendone il valore, cercano di appropriarsi di tutto ciò, ma invano Orfeo volle riportare in vita la sua ispiratrice.
Ormai, Poesia significava cercare lei, ovunque ne indovinasse traccia, o tentare di sostituirvisi, per avvertire sempre, come meravigliosamente sintetizza Juan Ramon Jiménez “Solo queda en mi mano / la forma de su huida!”
I millenni trascorsi da allora non hanno fatto che rieditarne l’essenza e oggi il suo Luogo è “in ricostruzione”, ve l’assicuro, io sono una specie di capomastro e i miei operai, per adesso, solo le poche tracce e i frammenti di quelle infinite donne che compongono la sola, unica, eterna.
Ma questo nostro Luogo della Poesia si compirà, anche per mano vostra, care lettrici! Basta vigilare sugli archetipi che ogni linguaggio contiene, ripercorrere i miti con Robert Graves, il poeta autore di “La Dea Bianca”, accostarsi ai testi prebiblici e induisti, nonché, più semplicemente, sentire l’io Luogo della parola rinata. Se un critico letterario ricercherà in questa Poesie analogie con l’altra (quella patriarcale) fallirà. Apparentemente, dopo le opportune analisi, secondo le leggi catalogiche, tutto è riconducibile ad una comparazione, però qui equivarrebbe a mettere a confronto una situazione reale con una virtuale. Ecco.Perché preferire l’imitazione virtuale quando l’astrazione della Poesia che riabbraccia il genere primigenio della parola-poesia. Siamo al chiarirsi del mistero: IMMACOLATA CONCEZIONE. E’ forse il verbo che innocentemente si è fatto donna e il VERBO è l’ostia che contiene il corpo prolifico di una madre che può concepire, sia pure con disagio, il piacere morale antitesi alla morte, rivelatore della morte, naturalità, crescita, acme, senilità saviezza. Per Umberto Eco è una colomba che sorvola l’isola del giorno prima, l’ultima delle colombe che accompagnavano le dee procreatrici, la prima veggente fra gli accademici a favore popolare.
A proposito di accademici, ho scoperto la pubblicazione di una tesi di laurea su Spazia d’Alessandria, mi sono servita di questo libro per trarre il profilo a un personaggio così fondamentale per la nostra ricerca. L’autrice si chiama Gianna Beretta, è di Milano, è una delle nostre senza conoscerci.
Stefania Cavazzon

Colloquio tutto particolare quello avviato tra poesia e immagine in queste pagine. Ad allontanare ogni rischio di un convenzionale incontro d’occasione la condizione biografica dei due interlocutori: parola e icone si confrontano in un dialogo, segnato a volte da silenzi, da incomprensioni, da improvvise tangenze, da comuni intuizioni, un dialogo che al di là della differenza dei modi e degli strumenti del comunicare, trova una sua giustificazione più profonda nel desiderio di racconto dei due fratelli. I disegni di Giovanni Cavazzon sembrano voler dare corpo, consistenza visiva alle tappe di un percorso che si pone anche, credo, come inevitabile viaggio autobiografico, senza tuttavia tentare alcuna impossibile prova di trascrizione o analogia strutturale: il punto di tangenza tra pittura e poesia nasce dalla possibilità di evocare un se pur lontano e simbolico "ritratto", di portare in superficie un frammento di identificazione destinato a slabbrarsi nel vuoto del foglio bianco. Le "parole" dell'immagine sono carpite dal vocabolario della storia e si trasformano in un fluire della linea di cadenze Art Nouveau; Cenerentola cita "Il ragazzo morso da un ramarro", la canoviana Giulia espone l'esasperato turgore delle labbra, Cleopatra e Lucrezia trovano nel contrasto tra l'illusionismo fotografico del volto e il decorativismo piatto dell'acconciatura evocazioni klimtiane, mediate attraverso la messa in scena dei manifesti di Mucha, altrove la grafia sembra rimandare a memorie dureriane. L'impaginazione tuttavia di questi brani da ricomporre resta costantemente improntata alla ricerca di una evidenziazione di alcuni elementi significanti (la bocca, le mani, il volto), che conquistano l'attenzione dello spettatore attraverso la loro centralità, il loro risalto plastico, a volte l'esibizione di una sensualità rimarcata, ma sono destinati poi a subire un processo di metamorfosi, a perdere la loro fisicità per trasformarsi in materia altra, per divenire semplici ombre, per scomparire. E il disegno segue così la poesia nella segreta alchimia delle parole.
Vanja Strukelj

Stefania e Giovanni Cavazzon, fratelli d’arte: lui sensibile ritrattista udinese, lei poetessa delicata e forte. Sta a Parma. Si sono incontrati nelle pagine a fronte, in un libro (Sorelle mie) dove ventun liriche di Stefania dedicate ad altrettanti personaggi femminili (un’appendice storica ne indica le linee essenziali) sono “ritratte” dal fratello. Un incontro annunciato: che Giovanni sia sempre stato affascinato dalla figura femminile non è una novità: ha ritratto donne famose come la Borboni o Dalila Di Lazzaro, ed è il suo drappo che ha accompagnato Paliodonna. “Parola e icone si confrontano in un dialogo, segnato da improvvise tangenze, da comuni intuizioni – scrive nella prefazione al libro Vanja Strukelj – un dialogo che,al di là della differenza dei modi e degli strumenti del comunicare, trova giustificazione nel desiderio di racconto dei due fratelli”.Ancora. “Il disegno cerca di seguire la poesia nella segreta alchimia della parola”, afferma il critico, rifacendosi alla tecnica, comune a versi e disegni, i evidenziare alcuni elementi significanti che poi scompaiono in una magica metamorfosi. Sono la bocca, le mani, il volto, un oggetto, un’ombra, un simbolo nei ritratti di Giovanni; è un’immagine, un ricordo, un momento della vita o – più spesso – della morte, che Stefania coglie nelle sue ventun donne.
Donne non qualsiasi, anzi a dir il vero eccezionali: vittime eroiche come Anna Frank o feroci assassine come Leonarda Cianciulli che saponificò le pretendenti al figlio; figure storiche arcinote del passato e del mondo attuale, da Cleopatra alla Monroe “dalle aliciglia di visone”, a perle sconosciute della storia, tale Ipazia d’Alessandria, filosofa fatta a pezzi dai seguaci di una dottrina avversaria.
Donne forti e tragiche, la Petacci (“utero tondo / cassato dal revolver”), la brigatista Margherita Cagol (“quel volo / dentro la morte armata”); ma anche figure della tradizione, viste in gustosa ironia, come Cenerentola, che manda a quel paese le pubbliche mondanità e se ne sta a casa a sognare presso il camino, o la Bella Addormentata che preferisce non essere baciata dal principe e continuare a dormire l’eterna giovinezza.
E Giovanni, “Principe / talmente esperto / da non osare più baciarla”, attraverso la magia dei suoi tratteggi apre la porta a questo sogno vero, dove la donna non è più eterna Addormentata da una cultura che la domina e la uccide. La sua matita non teme, come la parola di Stefania si muove libera di creare, di infrangere “questo monolito / muta trama di sottraendi / sortilegio / senza corpo / senza nome” che è l’inscalfibile cardine del mondo maschile.
Paola Beltrame, da “Nelle liriche e nei dipinti di Stefania e Giovanni Cavazzon - Ventun ritratti al femminile”



.......................................................................................BACK......

.........................................................HOME...................................

...............NEXT.............................................................................