Giovanni Cavazzon
Territorio

Poiché detesto la scrittura di routine e accetto solo di occuparmi di artisti che mi interessano, in realtà il mio compito è agevole. Nell’accingermi a redigere una “presentazione” l’unico vero ostacolo da superare è l’incipit. Da quale angolazione – delle cento possibili – impostare una chiave di lettura che risulti utile al lettore? Il piacere di occuparmi della pittura di Giovanni Cavazzon era turbato da questo dilemma. Riposavo al sole sulla terrazza, di fronte allo spettacolo del Tirreno verdazzurro, e pensavo che – al rientro – la pagina bianca del computer attendeva le mie impressioni su un altro paesaggio meraviglioso, quello ben noto e familiare delle colline che circondano il Molinetto della Croda. Lo avevo visto prima di partire per la vacanza estiva, nei dipinti offerti come aperitivo prima di una sontuosa cena di pesce: i colli di Refrontolo, dolci come seni di un’adolescente. E quelli di San Pietro di Feletto, dominati dalla bella chiesa affrescata; di Solighetto, dove è stato stupidamente smantellato il prodigioso giardino di sculture allestito negli anni ’60 da Ciano Salomon e Carlo Scarpa con le opere di Toni Benetton; di Pedeguarda dove abitava e concluse precocemente la sua avventura mio padre; di Rolle, di Follina, dove ho avuto casa per qualche anno; di Col San Martino, dove tuttora mi rifugio nel solaio di una vecchia casa, quando mi dedico ai grandi formati. Un paesaggio solcato da stradine che posso percorrere ad occhi chiusi (motocrossisti permettendo) e che amo almeno quanto le dilette coste dalmate. Del resto le alture che vanno da Conegliano a Valdobbiadene e proseguono oltre il Piave verso Bassano, nel rincorrersi dei profili sinuosi suggeriscono il movimento cullante di un mare amico.























La collezione di dodici opere dedicate “a Riccardo”
ed intitolate “Refrontolo” è costituita da
:

1 tecnica mista su tavola, cm.70x120
4 tecnica mista su tavola, cm.100x100
2 tecnica mista su tavola, cm.50x60
1 tecnica mista su tavola, cm.60x50
2 tecnica mista su carta, cm.70x50
2 tecnica mista su carta, cm.50x70

Mi aveva sorpreso l’interpretazione data da Cavazzon a quel paesaggio, fin troppo frequentato dai pittori veneti di genere. Dopo le insuperabili messe in scena di Giorgione e gli sfondi delle pale d’altare del Cima, legioni di artisti hanno rappresentato questa terra generosa di vini e ora massacrata dalla cementificazione. Temevo che l’amico udinese (ma nato il Lombardia, ha poi abitato a lungo nella nobile città di Parma: si vede che nel suo bagaglio non ci sono i vizi e i vezzi dei pittori friulani, né quelli dei veneti) fosse stato indotto ad una descrittività che il suo talento di disegnatore avrebbe potuto suggerirgli. Ho invece scoperto che – nel ciclo tematico per lui insolito – ha saputo mantenere il racconto entro quel limite vitale dell’evocazione che rappresenta la soglia necessaria, ma non superabile, della comunicazione poetica.
Sfiorato dalla brezza stavo girando intorno a queste riflessioni, chiedendomi da che parte avrei cominciato, quando mi sono ricordato di una frase di Francis Bacon, il grande pittore inglese (ma nato a Dublino), che citava Van Gogh. L’avevo letta il giorno precedente, in un bell’articolo di Pierre Rosenberg sul
Corriere della Sera. Chissà perché, i critici d’arte stranieri sono capaci di scrivere in modo leggibile, al contrario di quelli nostrani… Ma non divaghiamo: Rosenberg riferiva che per Bacon il concetto di verità nell’arte è stato toccato molto da vicino in una delle famose lettere inviate dall’infelice maestro olandese al fratello Theo. Vincent aveva scritto: “Ciò che faccio è forse privo di verità, ma questo riesce ad evocare la realtà con maggiore precisione”. Ecco, il problemino era risolto, potevo tornare a godermi il sole sul terrazzo di Belvedere Marittimo. Appena rientrato a Venezia, avrei aperto la pagina “Cavazzon-Molinetto” partendo con questa frase.
Ma ora mi accorgo che il prologo è già superfluo, poiché lo spazio è – come si usa dire – tiranno e ho bruciato quasi due terzi del compito. Sarà dunque utile andare al sodo, cercando di suggerire in sintesi alcune brevi considerazioni sulla mostra, costruita da Cavazzon con amore e professionalità, due componenti raramente reperibili sul mercato.
Innanzitutto egli ha tenuto in gran conto la sede espositiva, quell’apparizione miracolosa che sembra materializzarsi da un’egloga di Andrea Zanzotto. Oggi l’antico edificio, trasformato in luogo di cultura anche per l’apporto di Riccardo Pozzali, nel cui ricordo si organizza questo evento, è abitato da una calibrata sequenza di lavori realizzati appositamente da Cavazzon. Oltre al ritratto di Riccardo e dei nipoti, due sapienti versioni grafiche della Pietà e le raffigurazioni di San Paolo e di un Redentore esistenti presso la parrocchiale di Refrontolo dimostrano la solida preparazione accademica dell’autore, dotato di un segno preciso e avvolgente. Ma il clou della rassegna è costituito dagli otto dipinti, di differenti dimensioni, che aprono inedite finestre sulle secolari pareti del Molinetto.
In questi “paesaggi” l’artista ha reso tangibile l’assunto espresso nella lettera di Van Gogh. Non si tratta di mere copie dal vero, di più o meno sensibili impressioni raccolte
en plein air. Al contrario, dopo un’immersione totale nell’ambiente, così ricco di stimoli per la compresenza di elementi naturali (ruscelli d’acque ancora trasparenti in cui abita l’ormai raro gambero d’acqua dolce, macchie di rovi punteggiati dai bottoni delle more e sovrastati dal tremolante chiaroscuro delle robinie, e più in alto il sottobosco misterioso popolato da animaletti notturni) e dell’imponente, sudato intervento umano che ha trasformato i declivi in un immenso giardino, ordinatamente ripartito in musicale cadenza dalle “tirelle” reggenti il ricamo dei vitigni, ornato dai preziosi gelsi carichi di bacche mielose e dai fichi, tra le cui foglie palmate ora stillano umori i maturi frutti neri e verdini, Cavazzon ha ri-creato un nuovo paesaggio. Un microcosmo che – per l’appunto – è privo di verità poiché elimina il superfluo, talora fastidioso (la parabola televisiva sulla casa colonica, la goffa villetta progettata dal geometra negli anni del boom dei mobilieri del Quartier del Piave e sorta a sei metri dal perfetto fienile vincolato dalla soprintendenza e ora ridotto a garage) ed evoca la perfetta realtà del suo e del nostro immaginario, stabilendo in tal modo il contatto comunicativo.
L’operazione poetica non si compie con l’occhio rivolto allo specchietto retrovisore della nostalgia. Come il mulino, Cavazzon ha osservato ogni cosa e tutto ciò che ha visto e percepito l’ha assorbito e macinato finemente. Le immagini sono state allineate come fotogrammi, mischiate e virate. Anche i tagli compositivi alludono ad inquadrature fotografiche su cui interviene una magistrale tecnica pittorica, che risolve quasi con un gesto (ma il gioco è sotteso e sorretto da precise trame grafiche) l’abbagliante sequenza delle paline sotto la luce lunare, il muro corroso, la campitura del prato raso, l’intrico di fronde.
Se la finalità dell’esposizione non fosse quella di esitare le opere di Cavazzon al fine di istituire una borsa di studio per i giovani che si accingono ad intraprendere il duro cammino dell’arte, sarei tentato di suggerirne l’acquisizione per l’esposizione permanente nel Molinetto (negli intervalli tra le manifestazioni, of course). Difficilmente, infatti, si potrà trovare altra occasione d’imbatterci in una breve, ma significativa esperienza così pregnante e puntuale. Nell’angolo di presepio che si specchia sulla pozza cristallina alimentata dalla cascata, la modernità è entrata silente, con il rispetto dovuto alla testimonianza della storia vera, che non è la cronaca libresca delle date e delle battaglie, bensì quella del duro, quotidiano eroismo del lavoro umano.
Franco Batacchi, “Cavazzon al Molinetto della Croda:la modernità rispetta il presepio”


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