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Giovanni
Cavazzon |
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Con il
patrocinio di:
Promotori: Federazione Italiana degli Artisti
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di
Licio Damiani I piccoli guazzi dedicati alle Vedute del Natisone e alle Chiuse sul Cormor, tramate di verdi trasparenti e riflessi dorati, più che immagini del reale sembrano palpiti leggeri e fragili come fuggevoli memorie di una stagione incantata. Epigrammi pittorici insinuanti e preziosi. Cavazzon è artista di estrema raffinatezza. Egli affonda nei misteriosi antri del passato per estrarre magiche suadenze. Sul respiro ampio delle prospettive naturalistiche improntate a squarci di un gran teatro della fantasia hanno certamente influito gli studi in scenotecnica seguiti a Parma, dove acquisì il diploma di Maestro d'arte. Ma la visione costruita in rigorosi schemi prospettici si smaterializza, si fa aerea immagine interiore, palpita di fremiti lirici. Una sensibilità tesa modula la percezione, la sublima. Dai piccoli quadri epigrammatici il pittore passa a composizioni di ampie dimensioni. Si guardi alla “tavola-cinemascope” Il fiume Torre d'estate.
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Lo sviluppo orizzontale dell'inquadratura, articolata su tre fasce parallele, dà all'imponente brano paesaggistico una dimensione epica: il alto il cielo di un azzurro terso acquamarina; al centro le sponde chiazzate d'impasti di vegetazione policroma squarciata in diagonale dal sentiero-canalone di sassi che sfocia nel greto bianco abbagliante. L'osservatore è come trascinato dentro la rigogliosa possanza dei colori costruiti per blocchi sfaldati nella luce. In
Torre
di Coia il
paesaggio tarcentino si trasfigura nello scenario di
un'antichissima “favola bella”. La torate dell'epifanico
Pignarûl Grant diviene la posterla di un maniero medievale,
scorciata di quinta sul mareggiare di vegetazione resa con
irrealistici colori fauve. Sembrano prossimi a comparire alla
ribalta cavalieri in corrusche corazze, o forse un principe
azzurro che conduce nel castello sulla collina la leggiadra
fanciulla salvata dalle spire malefiche del drago e abbracciata in
groppa al destriero. Quasi solenne epigrafe a celebrazione dell'estremo decadimento è il bronzeo Battente in foggia di testa leonina dipinto in monocromo grigio-verde con acribia iperrealista, sotto il quale si allinea il filare di calcinacci di un palazzo di un'altra età, forse abbandonato. Elegia di un ciclo storico. Cavazzon ripropone gli stessi motivi negli inchiostri e nelle incisioni. La musicale armonia del disegno è limpida, quasi irreale nella sua nettezza. Sono, ancora, particolari di balconi, di ballatoi, di finestre, di muri, di portali. Dal surreale calco quasi fotografico traluce come un desiderio di possesso totale, un bisogno di fuga nella perfezione dell'anacronismo per ritrovare la scintilla di un'emozione. Le immagini diventano ombre di un mondo perduto. La loro assoluta purezza si dissolve nell'illusione. Nelle ultime composizioni Cavazzon inserisce elementi materici, facendoli aggettare sul dipinto che accenna a motivi paesaggistici sintetizzati fino al limite dell'astratto. Accanto ai sassi, radici, rami calcinati, bottiglie di plastica creano un urto stridente con la pittura. L'artista polemizza con l'inquinamento, con lo sfregio alla natura provocato dall'uomo. Argomento, peraltro, già posto, in passato, seppure in termini soltanto pittorici, con il ciclo delle Discariche. In sostanza, egli vuol rendere omaggio al Friuli divenuta sua terra d'adozione, spiega nell'arguta autopresentazione stesa in una lingua friulana acquisita per studio e per amore. Una lingua gustosa, sapida, ricca di autenticità e di singolare freschezza. Come la sua pittura. |