L’indagine
figurativa del pittore Giovanni Cavazzon si è ispirata a un
affascinante episodio del mondo classico legato alla biografia del
poeta Pindaro.
Cavazzon propone un’imponente figura umana
dall’anatomia michelangiolesca e in essa possiamo riconoscere il
poeta, uomo profondamente devoto al culto apollineo: le biografie
antiche ci ricordano che egli ottenne la porzione (merís)
delle carni sacrificali nella festa delle Teossenie a Delfi e il
pittore sottolinea questo rapporto privilegiato di Pindaro con il
dio Apollo inserendo nella sua costruzione iconica una cetra,
sopra la quale la figura del poeta domina.
Nel quadro risalta
la presenza di un’ape, simbolicamente fuori misura, che porta al
poeta addormentato una cella d’alveare gonfia di miele.
Nell’articolazione che Cavazzon dà alla sua opera pittorica, la
presenza di quest’ape, quasi una digressione mitologica alla
maniera pindarica, sembra rappresentare l’ispirazione che viene
al poeta da un’entità divina a lui superiore. Uno sfondo appena
accennato descrive verosimilmente il paesaggio della Beozia, in
cui si compì il prodigio premonitore e, come ci racconta Pausania
(IX,23, 1ss.), sulla strada per Tespi uno sciame d’api fece il
favo sulle labbra del poeta colto dal sonno. La luminosa immagine
del soggetto centrale, che si distacca e emerge, nella sua
bianchezza, dallo scenario naturale, può essere letta come
un’epifania divina, un atto di investitura riservato a chi
Quintiliano definì “di gran lunga il principe dei poeti
lirici”.
Cavazzon ha colto in profondità lo spirito che
mosse la poetica stessa di Pindaro, il quale, lontano dall’essere
un “facitore di statue”, e in opposizione a Simonide e
Bacchilide, rivendicava una virtù innata del poeta, pari alla
virtù innata dell’eroe, e sosteneva una concezione
aristocratica della poesia, patrimonio di pochi eletti dotati da
natura.
Bruno
Gentili, Per
il Pindaro di Giovanni Cavazzon,
Roma, 4 settembre 2013
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Siede
nell’essenziale (tanto vero quanto vuoto), vi si appoggia, come
fuoriuscito dalla citazione di un contesto perfetto. Il braccio
destro, forte, palestrato, in evidenza, la mano comunque
aristocratica, gentile. Il primo dei “nove lirici”, secondo il
canone composto dai grammatici alessandrini. E subito i giuochi
Pitici, svolti durante la sua nascita, riemergono, col loro
clamore e balza agli occhi, dal contrasto armonico che si
sintetizza nel polso sospeso, la sua nobilissima origine da una
delle più illustri stirpi doriche, gli Egidi.
Il capo è
piegato a sinistra, come la tradizione lo vuole, ormai ottantenne,
all’atto della sua morte dolce, sul petto dell’amato Teosseno,
nella palestra di Argo. Tale postura però ben altro suggerisce:
egli, Pindaro, profeta della cultura dorica, sacerdote della
poesia corale traverso la quale si esprimevano aspetti di vita
nobile ed eroica, ha da cedere il passo all’attica nuova
espressione, alla futura sofistica, meno aristocratica e
conservatrice, meno solidamente etica.
Tutto il lato sinistro
sfuma, in un lirico presagio di dissolvenza, pure la cetra, tenuta
senza alcuna forzatura, quasi parte di se stesso.
Opera su di
lui l’ape, l’archi-tèkton, l’ispiratrice di canti ed
ecco i suoi versi, dalla Pitica X: “Il fiore degli inni
si lancia com’ape dall’uno all’altro argomento”. E
architetto è senz’altro, in tale opera, Giovanni Cavazzon. Da
fondamenta di particolari che sono sostanza e anima di un mito e
di una civiltà, con dovizia matematica e rigore scientifico,
l’artista costruisce, o meglio, riesuma lo spazio di un destino,
lo colloca al di là del tempo, ne ristruttura il senso ultimo e
lo dispone per un’eternità di poesia, di musica, di mistero.
Stefania Cavazzon, Parma, 8 aprile
2013
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