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PIETRO
MASTROMONACO
Le Veneri di Cavazzon
Il
mito della donna, quale elemento misterico, affascinante e
inquietante, investe tutta la storia dell’uomo, dalle veneri del
paleolitico alle deità femminili dell’Olimpo, vuoi greco o
induista, e alla Maria Vergine del cristianesimo, fino alle
angelicate creature dello stil novo e alle sublimi o perverse
eroine del romanticismo e del decadentismo. Così nella
letteratura, nella pittura con raffigurazioni che si ricreano
sempre varie percorrendo, in tutta la loro valenza simbolica, ogni
possibile immaginario. Anche Cavazzon è investito dal mito, quasi
nell’ossessione di rapportarsi alla donna, l’essere da cui
scaturisce la vita, l’emblema dell’eros, che si propone, come
Venere, in tutta la sua sacrale significatività. Un’operazione
ardua quella che ne consegue, perché l’artista si tende
spasmodicamente a una sintesi a proiettarci, al di là del tempo e
dello spazio, per cogliere quella essenza sottintesa a tutte le
raffigurazioni del femminile.
Ed ecco, le Veneri che
riemergono nel loro splendore dalle casse di imballaggio, ossia
liberate da tutte le scorie e le contingenze del vivere, che
sempre ne impediscono la visione a chi non sappia scrutare. Venus
cerulea, Venus rosea, Venus eburnea…, appellativi che vogliono
fondere l’elemento pagano e cristiano, la bellezza che folgora,
nello stesso tempo salvifica, invocata come nelle litanie.
Ma
la Venere donna, bellezza pure inquietante, come ogni bellezza,
che contiene sempre l’ambiguità e la duplicità, l’altro da
sé, capace di scardinare l’essere nelle sue contraddizioni.
Così nelle “Venus night and day”, alle Veneri solari,
vibranti di luce, stese nella loro quiete, si oppongono Veneri
notturne o lunari: i visi, i corpi nella penombra ambigua e oscura
della seduzione, solo i seni da emergere nel loro chiarore, quasi
un atto di offerta peccaminosa.
Elementi di contraddizione
pure nell’Estate e nell’Inverno di Venus, in cui la donna si
pone come emblema del tempo e delle scansioni della natura che dal
magma infuocato dell’indefinito fa emergere la possente vitale
creatura per poi piegarla e appassirla in una vecchia rattrappita,
china ad afferrare l’arbusto, quasi a non voler perdersi
immergendosi in una nuova esistenza, in un nuovo ciclo del vivere.
La donna simbolo delle stagioni, del tempo, dell’eterno
perpetuarsi dell’essere.
Raffigurazioni quelle di Cavazzon
che ci portano alle stesse radici del vivere, ma capaci nello
stesso tempo di liberarci nell’incanto di un impalpabile sogno.
Per lo più le sue donne lievitano chiare, fluttuano quali
evanescenti fantasmi, a voler quasi insinuarci “l’insostenibile
leggerezza dell’essere”. Non vi sono nelle sue tele sfondi o
architetture, solo qualche striscia d’azzurro e stesure morbide
di luce diffusa, uno spazio al di là della storia, dove si
muovono solo le creature del mito nella loro nudità luminosa.
Solo le lenzuola avvolgono lembi di corpo, a farci cogliere la sua
vibrante e morbida carnalità, quasi percepibile al tatto, non
solo alla vista. Solo la donna tellurica, si diceva a proposito
dell’Estate di Venus, si propone accesa, infuocata, quasi un
delirio dell’eros, sulle spalle rivoli di capelli come primi
intrecci e lineamenti di vita.
Ma le Veneri, qualsiasi
significazione loro si attribuisca, scaturiscono dall’immaginario;
così non solo omaggi del pittore ai suoi fratelli pittori Ingres
e Manet, ma l’esemplificazione di come la bellezza si proietti
nella mente e nell’immaginario, ricreata perennemente
dall’artista e dall’uomo. Cavazzon, essere della contingenza,
capace di proiettarsi a creare e rappresentare il sublime.
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