Giovanni Cavazzon
Testi critici

GIORGIO BELLEDI

Intorno a Venus
Afrodite e Venus, dee della bellezza e dell’amore, sono sempre state simboleggiate da un bel corpo nudo di donna. Un corpo esposto al desiderio, creato dal desiderio amoroso, dove l’opera di svelamento, la sua spoliazione, infittisse, anziché diradare, il mistero dell’amore sensuale. L’iconografia occidentale sembra che da allora non abbia saputo che ripercorrere quella strada. Veneri diafane, Veneri opulente, Veneri boscherecce, trionfanti, malinconiche, misteriose, popolari: tutte pronte ad offrirsi al nostro occhio che guarda ma non vede, che più scopre e meno scopre. Penso a Goya, la cui Maja Vestida è più sensuale della Maja desnuda, ai nudi di Modigliani, dove l’enigma del volto ci distanzia dalla carnalità del corpo.
In questa esposizione, Giovanni Cavazzon ci accoglie nel suo atelier, sbirciandoci all’entrata sornione e perplesso dal suo autoritratto, per mostrarci il proprio lavoro di ricerca (di contenuti e di linguaggio pittorico) che ha attraversato il suo lungo operare su questo unico tema. Un percorso intorno al corpo femminile, alla ricerca di Venere, la più misteriosa delle dee. E lo fa partendo dagli splendidi
disegni, di un calligrafismo maniacale, quasi volesse fissare nella sua memoria col segno grafico, ogni particolare, ogni minuzia, ogni vibrazione del corpo che è l’oggetto della sua ricerca. A volte per coglierne un dettaglio (un torso, una coscia, le spalle) o per ripercorrerne l’intera figura (il volto nascosto o negato), altre volte per abitare quel corpo di una persona, di una donna che sa di essere nuda. Questa è la costante del rapporto fra il pittore Cavazzon ed il nudo femminile. Forse dipenderà dalla sua lunga pratica di ritrattista che lo impegna a cogliere il carattere e la psicologia dei soggetti, ma le donne di Giovanni Cavazzon non sono nude, sono spogliate. Offrono la loro nudità occasionalmente, con pudore o sfrontatezza, ma consapevoli di essere nude, in una situazione anomala dal loro status sociale.
Poi incontriamo le cinque grandi Venus in acrilico, dove Venus, disvelata e liberata dalle moderne casse di imballaggio e poliesteri che la proteggevano, è esposta alla nostra visione ed etichettata: Venus cerulea, Venus rosea, Venus eburnea, Venus mixta, nascita di Venus. Infatti in un angolo sta parte della cassa di imballaggio che le richiudeva; vicino, una Venus appena uscita dal suo involucro non è ancora stata appesa al muro. Dove Cavazzon abbia scoperto queste Venus non sappiamo. Forse erano vecchi affreschi che abbellivano case gentilizie, ora strappati dal muro, restaurati con gusto moderno, etichettati come merce e pronti per l’uso, che è quello di dare un tocco di antica raffinatezza al decor delle gelide e funzionali banche, tutto vetro, cemento e acciaio. Forse invece il pittore, dopo averle immaginate e create, cerca, con l’ironia ed il distacco, di allontanare da sé la malìa di figure femminili così seducenti. Per non subirne il fascino ed il mistero, per scorciarne la solare presenza, per filtrarne la prepotente sensualità. Di questa seconda ipotesi ne abbiamo una conferma con i due oli dove il pittore rende omaggio a due grandi pittori del passato, Ingres e Manet, che prima di lui hanno affrontato il nudo femminile. Ammirato omaggio non privo di un sottile gioco parodistico. Qui, nascondendosi dietro la citazione colta, Giovanni Cavazzon può abbandonarsi al piacere di creare una donna nuda quale oggetto di desiderio. Una donna reale, di oggi, che si è spogliata per farsi ritrarre, per farsi ammirare, per suscitare il piacere voyaristico della nostra contemplazione. Ed è questo che più colpisce in questi due oli, di fatto due ritratti: il diverso atteggiamento psicologico di due donne vere di fronte all’occasione di mostrare il proprio corpo nudo. L’una (Manet) quasi si trattasse di un gioco malizioso, l’altra (Ingres) imbronciata e “signora” per vincere l’imbarazzo, per contrastare il giudizio di chi guarda. Il percorso continua con quattro nudi a due a due speculari: bianco e nero, negativo e positivo, giorno e notte, veglia e sogno, fisicità ed immaginario erotico. Quattro flash della memoria, quattro icone del nudo femminile, quattro sintesi dell’immaginario maschile. Qui la divina maestà di Venus si slontana per farsi segno, carta dei tarocchi, doppio. E qui il maschio si interroga sull’ambiguità, la doppia valenza, del corpo femminile; qui il reale scivola nell’inconscio, ma ancora una volta il mistero della donna ci sfugge e resta l’enigma.
Forse ci può aiutare a saperne di più sulla donna il coglierne il percorso biologico esistenziale che troviamo ne
L’Estate e L’Inverno di Venus, due opere in tecnica mista, acrilico ed olio, raffiguranti il primo un corpo nudo di una giovane nel suo massimo splendore erotico-procreativo ed il secondo il corpo nudo di una vecchia, ora proteso a divenire. Sono due grandi tavole dove il piacere del dipingere dell’espressività pittorica prevale su ogni altra considerazione. Il pittore s’abbandona al flusso delle emozioni, il corpo della donna si fa natura, prende i colori della terra, delle stagioni, si empie della breve felicità di ogni essere vivente, ne coglie con commozione i segni ineluttabili della fine del flusso della vita, che è destino comune all’uomo e alla donna. Perché la donna è anche nostra sorella, madre, figlia, vive con noi, dentro di noi, tutti facendo parte di uno stesso cosmo, di una stessa corporeità che fluisce nel tempo. Venus, dunque, è un corpo d’amare, che ci appartiene, come ne La creazione di Venus.
Un tema abituale (il pittore e la modella), è qui rivisitato in chiave autobiografica con quadri che narrano dell’appropriazione di Giovanni Cavazzon, come artista, del corpo della donna amata attraverso al ri-creazione dentro la propria opera, con la propria opera: testimone e protagonista, pudicamente suo malgrado. Fine liberatoria di un percorso, di un viaggio, alla ricerca dell’immagine sfuggente della dea Venus, altra da sé, desiderata e misteriosa, ora finalmente raggiunta, ricomposta nei suoi frammenti, attraverso il sentimento amoroso.
All’uscita incontriamo il severo ritratto di una signora in nero. Figura misteriosa, che guarda e giudica con distacco il mondo e le cose, malinconica e riservata, ma che pure emana una strana aurea protettiva e salvifica. E’ la madre del pittore. Forse tutto il percorso parte da qui.

GIORGIO BELLEDI

Il linguaggio delle apparenze
- tra mito, anima e corpo -
In questa esposizione, Giovanni Cavazzon ha voluto offrire alla attenzione dei visitatori un aspetto importante della sua opera: un modus operandi, una ricerca affinata nel tempo, un uso del linguaggio pittorico, per giungere ad esprimere del corpo umano contemplato gli aspetti misteriosi, l’indicibile della corporalità, il gioco delle apparenze, anche psicologiche e, perché no, spirituali.
Il titolo vuole sintetizzare tutto questo: di fronte al corpo umano l’autore sceglie il linguaggio pittorico che più si addice alla sua apparenza. I ritratti di Cavazzon a volte si rifanno agli oli ottocenteschi quando vuole sottolinearne gli aspetti romantici, oppure al modernismo della pop art, o si vivacizzano con coloratissime e diafane tempere se i soggetti sono i bambini. Per non parlare della grafica, della pirografia con la sua secchezza e forza linguistica, o delle installazioni, teatrini del mito.
Dunque se abbiamo in questa mostra di uno stesso soggetto (il corpo umano) varie versioni linguistiche, non è per il
divertissement di Giovanni Cavazzon o per evidenziare, sia pure con legittimo compiacimento, la propria abilità tecnica, ma per una più profonda esigenza etica ed estetica: il primo dovere di ogni autentico artista. Lo dico perché a volte sembra che le nuove generazioni di pittori tendano a dimenticare questa necessità morale o comunque l’appiccichino didascalicamente (magari con un titolo indovinato) al di fuori di ogni specifico pittorico. Non lo dimentica invece un maestro con cinquant’anni di professione come Giovanni Cavazzon.

GIORGIO BELLEDI
Ri/tratti

Fare un ritratto. Cioè ritrarre. Cioè trarre fuori di nuovo. Forse aiutare a ripartorire.
Ma chi è quel clone di noi, tratto fuori e che ritroviamo incorniciato ed appeso al muro, che ci somiglia ma ci sorprende? Un fratello dimenticato? Uno specchio indiscreto?
Non accusare lo specchio se la tua faccia è storta!”, diceva Gogol ed anche se a volte lo specchio può essere benevolo, nondimeno un leggero senso di estraneità ci colpisce. Così siamo? Così ci vede la gente? Noi portiamo in giro la nostra immagine dimenticandoci di quanto questa racconti di noi. “Siamo maschere nude!” diceva Pirandello e Cocteau (credo) aggiungeva: “Dopo i quarant’anni tutti siamo responsabili della nostra faccia”. Per la verità in questi ultimi tempi si è fatta strada una maggiore consapevolezza, anzi la cura della propria immagine per alcune/i è diventata ossessiva. Cosmetica, lifting, liposuzione, fino ai miracoli della chirurgia plastica. Spesso però l’apparire più vecchi o meno belli non è proprio ciò che più temiamo, quanto piuttosto quello che un ritratto possa svelare di noi, delle nostre più intime pulsioni esistenziali. E questo è particolarmente rischioso quando il ritrattista è Giovanni Cavazzon.
Il suo tratto così minuto, delicato, abbellente, graffito con una tecnica superlativa, di un neoclassicismo arioso e seducente, con cui l’espressività si colora di grazia, adombra e rivela, assieme alla persona, il personaggio. Come ogni buon biografo esso ci dice della persona, della sua disponibilità al mondo, delle sue aspirazioni, ed insieme del suo status sociale, dell’ambiente famigliare, del ruolo che la società gli ha assegnato. Sono ritratti che vanno letti con attenzione: uno sguardo, una piega amara, una pensosità disarmante, un’aria di sfida, un’acconciatura, un accessorio, ci raccontano molto; e più del personaggio che della persona. Questi ritratti di Giovanni Cavazzon, scanditi nel corso degli anni e da una lunga frequentazione dell’ambiente friulano, visti tutti insieme, ci appaiono come la Commedia Umana di una società peculiare ben individuabile, coi suoi miti ed i suoi riti, vizi e virtù, dolcezze, caparbietà ed impeti umorali. A volte sembrerebbe che Cavazzon abbia voluto mettere in scena un piccolo mondo, crearsi un suo teatrino, raccontare di chi attorno a lui vive lavora sogna, con grande rispetto ed amorevole attenzione, ma anche con una punta di ironica perplessità.
Forse solo i bambini sono e restano bambini; l’innocenza dei loro sguardi li assolve da ogni giudizio, anche se in alcuni ritratti multipli possiamo cogliere la preveggenza di un destino non molto diverso da quello che fu assegnato ai loro genitori.
Poi ci sono i ritratti di personaggi pubblici, di spettacolo, e qui il pittore invece di aggiungere ha tolto. Questi che sono già personaggi nell’immaginario comune, ha voluto rappresentarli in una loro più spoglia intimità, fuori dalle luci della ribalta, senza trucco ed atteggiamenti divistici, una volta tanto, finalmente, signori Nessuno.
Chi dipinge, anche quando racconta di altri, racconta di sé. Leggendo questi ritratti scopriamo molto anche di chi li ha creati. Questa mano sorprendente, per abilità tecnica e sapienza dello spazio, è guidata da un uomo che ama i suoi simili. La sua è una tecnica pittorica “amorosa”, innamorata del soggetto che dipinge, acuta nell’osservazione e curiosa, catturante, dei moti dell’animo della sua creatura, una tecnica anche di chi ama profondamente il proprio mestiere, spinto soprattutto dall’intima urgenza di fermare sulla tela il mondo visibile e nascosto che lo circonda e che colpisce la sua puntuta sensibilità d’artista.


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