|
FRANCO
BATACCHI
Trascrizione
della presentazione della mostra “Per un amico”
(Refrontolo,
18 settembre 2004)
Quando
l’amico Cavazzon mi telefonò, un paio di mesi fa, dicendomi di
questo progetto, non gli nascosi che ero piuttosto perplesso.
Conoscendo il suo lavoro, basato principalmente su due grandi
filoni, quello della ritrattistica e quello di una espressività
basata su una figurazione prevalentemente simbolica, non riuscivo
ad immaginare come avrebbe risolto il problema di immergersi in un
paesaggio che doveva pur rendere in maniera realistica.
Quindi,
prima di accettare questo incarico, lo pregai – naturalmente
fidandomi molto della sua valenza, verificata in tante mostre, in
tanti incontri – di farmi vedere in anteprima le opere con un
certo anticipo, perché, nel caso non fossero state nelle corde
delle cose che solitamente mi interessano, avrebbe fatto in tempo
a deviare verso qualcun altro. Ma una sera sono andato appunto nel
suo studio, e – prima di una stupenda cena a base di pesce –
mi fece vedere i primi tre quadri. E restai, devo dire,
piacevolmente sorpreso, perché Giovanni Cavazzon è riuscito in
pratica a rimanere se stesso, ma a compiere un’operazione quasi
mimetica. E’ riuscito a tuffarsi in un ambiente che non è
l’ambiente delle sue radici: Cavazzon viene da Parma e sta in
Friuli, ed ha conosciuto questi posti proprio per merito di
Pozzali. Ma noi che invece questi posti li abbiamo non solo
conosciuti, ma vi abbiamo abitato e li abbiamo nel sangue, siamo
abituati ad interpretarli in maniera quasi oleografica, in maniera
nostalgica. Ci viene sempre in mente Cima da Conegliano, e
Giorgione, e purtroppo molti pittori delle generazioni del secolo
scorso, ormai – perché siamo in un nuovo secolo – ma diciamo
del secondo dopoguerra, hanno continuato a rifarsi a quegli schemi
in una sorta di copia dal vero ripetuta all’infinito, dove al
massimo si può parlare di sensibilità, ma certo non di arte
creativa.
Cavazzon ha fatto un passo importante, invece, in
una direzione diametralmente opposta: è riuscito a creare delle
opere che, da un lato mantengono la fedeltà ai luoghi. Questi non
sono paesaggi pur che sia, non possono essere paesaggi toscani o
siciliani. Sono i paesaggi di questo ambiente: Refrontolo e i
colli intorno a Refrontolo. Tuttavia li ha interpretati con una
tecnica e con un’impostazione visiva estremamente attuali, in
qualche modo compiendo anche una virata nel suo percorso di
ricerca artistica.
Nella stessa mostra voi vedete dei
pregevoli ritratti, come per esempio quelli dei nipotini di
Pozzali, nella sala superiore un sontuoso autoritratto ed alcuni
volti degni dell’abilità di un maestro antico: e quello è il
suo filone principale di attività.
Ebbene, avrebbe potuto
fare la stessa cosa, magari con un grandissimo successo di
pubblico, riproducendo minuziosamente i tratti del paesaggio, i
muri corrosi nei piccoli particolari; muro che viene creato nel
tempo non soltanto dal muratore che lo ha impostato, ma dagli
agenti atmosferici che lo hanno incavato, che lo hanno corroso,
dalla lumaca che vi ha depositato la sua bava, o la lucertola, dal
verderame che il contadino spruzzandolo sulla vite ha lasciato
andare anche dalla tirella fino alla casa colonica, da tutto ciò
che il tempo deposita su un edificio antico. E così per le piante
e così per le acque e tutto il resto.
Così facendo avrebbe
certamente compiuto un’operazione fedele alla verità, ma non
alla realtà. E mi spiego. Vincent Van Gogh, in una lettera al
fratello Theo, una famosa lettera, ad un certo momento dice:
“credo di aver trovato la realtà, perché non dipingo
(naturalmente non sono le parole testuali, cito a braccio)
esattamente quello che c’è, ma la realtà che io vedo nelle
cose.”
Ecco, la realtà non è la verità fotografica,
anche perché altrimenti i pittori non servirebbero a nulla.
Dall’avvento della fotografia, a cosa serve un pittore se deve
riprodurre esattamente quello che c’è? Il pittore deve andare
al di là. Deve vedere quello che l’occhio della macchina
fotografica non riesce a scovare e a rivelare.
Io credo che
Cavazzon sia riuscito, in questo piccolo ma prezioso ciclo di
dipinti, a reinventarsi una tecnica, che già aveva applicato in
altri suoi lavori -
ad
esempio in una serie di nudi dedicati a Venere
- ma
qui particolarmente puntuale, perché c’è di mezzo il discorso
materico. E’ intervenuto, credo sia con il manico del pennello
usato come un bulino, in qualche modo, sulla materia, per creare
molto rapidamente, ma con una estrema efficacia, la sensazione di
un brulicare di forme, foglie, luci, tremolare di atmosfere sotto
il sole che picchia su strade bianche e su case calcinate, con una
sensibilità estrema e senza indulgere, appunto, al
particolarismo. Non verità, ma realtà.
Qual è la realtà?
Quella che tutti noi amiamo, quella di un luogo come questo, del
Molinetto, così miracolosamente e meritoriamente preservato, che
purtroppo non è più del nostro Veneto. Il nostro Veneto è stato
brutalmente cementificato, saccheggiato, nel nome, naturalmente,
del progresso e del benessere. Adesso ci siamo forse fermati,
speriamo, appena in tempo, in certe zone. Qui per fortuna siamo in
una situazione privilegiata, in qualche maniera.
Ecco, il
fatto che un artista riesca a documentare questa situazione
privilegiata, riesca a consegnarla a chi domani deve verificare
che nulla cambi – speriamo – ma non per una conservazione
becera o nostalgica, ma per il fatto che se non abbiamo questo,
non abbiamo più nulla. Abbiamo soltanto il consumo, ma il consumo
ci ucciderà.
Ecco, secondo me Cavazzon ha svolto
perfettamente il suo compito. Lo ha fatto meritoriamente, viste le
finalità dell’iniziativa. Io, quando ho visto i quadri,
spontaneamente mi era venuto di proporre alle autorità, ma dico,
perché non le acquisite per tenerle in permanenza nel Molinetto,
tra una mostra e l’altra? Perché sembrano nate qui. E
soprattutto perché hanno una funzione anche didattica, cioè
mostrano alle persone abituate al post-impressionismo di maniera,
quello che ha distrutto mezzo secolo di cultura nel Veneto, negli
ultimi quarant’anni, e ancor più negli ultimi dieci, con le
mostre alla Casa dei Carraresi, è riuscito a dimostrare come si
possa parlare di paesaggio in termini estremamente moderni ed
attuali, con un taglio a volte desunto dalla fotografia e dalla
cinematografia, ma con una forte mano di pittore e di artista,
confermandosi una figura di primo piano nel nostro panorama.
|