Giovanni Cavazzon
Testi critici

LICIO DAMIANI
I ritratti di Cavazzon

Le avanguardie storiche del Novecento sembravano aver eclissato, con il realismo, la ritrattistica d’arte – sia in pittura, sia in scultura e persino nella fotografia – intesa quale rappresentazione ideale di un personaggio. Il fotografo era il più delle volte chiamato a realizzare una ritrattistica di consumo, di cronaca o burocratica, da pubblicare sui giornali, da inserire nei documenti o, nel migliore dei casi, da trattare come un frammento di quel tempo perduto che ognuno di noi desidera recuperare. In pittura scampoli di ritratti – esemplari le distorsioni e le deformazioni cubiste di Picasso – abbandonato ogni pur minimo interesse per la verosimiglianza fisionomica, puntavano a comunicare “in soggettiva” l’aura psicologica ed emotiva del soggetto, così come percepita dall’autore.
Nondimeno, sebbene in ombra rispetto a un “ufficiale” impegno, la richiesta del ritratto tradizionale non è mai venuta meno. Forse perché il ritratto dipinto ha una maggiore parvenza di “durata”, nobiltà, aulica dignità e sembra assicurare rispetto alla fotografia (anche se non sempre è così) una maggiore libertà d’interpretazione. L’uomo e la donna in posa poco conoscono del proprio aspetto, vivendo nella proiezione di un ideale talvolta confermato, più spesso negato, dell’immagine colta di sfuggita allo specchio, e allora desiderano riscontrare l’immagine ideale di sé nell’opera dall’artista col quale intessere un dialogo interiormente espressivo.
Le radicali modificazioni subite negli ultimi anni dalla ricerca estetica, l’affermazione del concetto secondo cui “tutto è arte”, le tante correnti di rivalutazione dell’oggettività hanno peraltro riportato alla ribalta l’espressione realistica. E ci sono sempre di più persone che amano tornare al ritratto dipinto non soltanto per una sorta di compiacimento autoreferenziale, ma per un modo intellettuale diverso di guardare alla pittura. La quale pittura si alimenta a una pluralità di ibridazioni autonome, ricorrendo ad apporti eterogenei del mondo produttivo, dalla grafica pubblicitaria al cartellonismo. Si pensi alle serializzazioni-feticcio di Andy Warhol, al recupero “alto” del fumetto secondo un’ottica analitica e dilatante (Lichtenstein), alla mimesi fra pittura e dato meccanico proprio della fotografia e degli altri linguaggi di comunicazione di massa (iperrealismo, citazionismo riproduttivo di capolavori del passato, virtuosismi al limite di un trompe-l’oeil quasi metafisico). Il rapporto fattosi stretto fra pittura e immagine fotografica sembrerebbe voler riportare la pittura stessa a quel realismo accademico precedente la rivoluzione impressionista o, almeno, aderire spesso polemicamente a uno scrupolo di diligenza, quasi con l’intenzione di mettere in crisi il mito della perfezione tecnica.
In questo senso, i ritratti di Giovanni Cavazzon sono esemplificativi di una rilettura del classico estremamente attuale. Diafani come ombre di un mondo intoccato e lontano, risplendono nell’armonia musicale del disegno di una luce irreale proponendosi quali modelli di una visione morganatica. La loro assoluta purezza si dissolve nell’illusione. Il colore svolge una funzione di controcanto, nota evocativa nella sua rarefatta preziosità sfuggente, oppure si impronta sulla traccia di riferimenti antichi; la scelta non è mai casuale: viene ispirata e suggerita dall’ambientazione, dal carattere, dal “tono” psicologico del soggetto.
A volte, come nelle due Sorelline Amodio, le emulsioni a fraseggi patinati di azzurri fondi, di morbidi chiaroscuri bruni, di abiti soffici di velluti e sete, d’incarnati lucenti di pastello, sembrano mimare aristocratiche foto acquerellate del primo Novecento. Il Ritratto di Emilia richiama atmosfere fiamminghe: la figura sbalzata dal fondo scuro s’impernia sul volto investito di luce arcano e fascinoso; le frange sparse dei lunghi capelli corvini, riverberate di blu, si partiscono a mo’ di sipario rivelatore di un’apparizione; le mani eleganti si abbandonano mollemente sulle ginocchia: lo smeraldo dell’anello al dito è altro punto di convergenza visiva.
E una spiritualità tesa raccoglie il meditativo profilo di Paola Borboni. Scompigliano la chioma ventosa delle tre Sorelle di Pordenone i biondi arpeggi serpentini della Primavere e della Venere di Botticelli, evidenziandone la temperie di fremente capricciosa freschezza, mentre la testa volitiva del Giovane pordenonese s’impone con l’orgogliosa qualità di un ritratto di Antonello da Messina, della cui tavolozza il particolare della camicia richiama i rossi corallini. Nella Famiglia altoatesina dominano componenti cromatiche calde d’ascendenza nordica, intrise di echi bruegheliani.
L’eclettica rapinosità di tecniche viene confermata dalle immagini multiple mutuate dal dinamismo cinematografico, là dove Cavazzon, per cogliere del soggetto la molteplicità di espressioni che trapassano nell’attimo, duplica o triplica i volti nella medesima composizione. Ed ecco, allora, la sequenza dei Tre momenti di Giorgio Celiberti, delineati a matita e a sanguigna con limpido disegno d’impronta leonardesca; o il Triplice ritratto dell’attore Gastone Moschin, la cui impostazione ricorda il Triplice ritratto di orefice di Lorenzo Lotto; o, ancora, le strip ammiccanti delle Teste di bambini di trasparente grafia. La scomposizione del Ritratto di ragazza colombiana, addirittura, riporta quale logo di riferimento uno spezzone di pellicola filmica.
Sulla funzione semantica del particolare insiste il Ritratto della pittrice Gina Roma: sul foglio neutro il primo piano non finito del viso gioioso di creatività; sotto, secondo una correlazione non spaziale, ma logica, le mani intrecciate nel grembiale bianco di lavoro e in basso i pennelli infilati nel vaso di terracotta.
Evanescente purezza rinascimentale sublimata da effetti flou, quasi per analizzare mimeticamente le virtuosistiche possibilità di tecnica fotografica, incide il delicato Ritratto di Barbara dallo sguardo vivo e dolcissimo: elegia della bellezza assoluta, segno forte di terrestrità angelicata.
La Famiglia del calciatore Sensini, dalle cromie leggere biondo rosate ai limiti del monocromo, è inserita in una cassa-finestra: ne “difende” la privacy una vera tendina, che l’osservatore può a piacimento scostare. Cavazzon usa spesso inserire l’immagine in scatole lignee la cui titolazione in calce richiama i caratteri usati dagli spedizionieri; è un mezzo di straniamento, di presa di distanza dal soggetto, allusivo al processo di mercificazione del prodotto artistico. Tale espediente sintattico viene utilizzato anche nell’Autoritratto, esemplare per caratterizzazione fisionomica e introspettiva; la riproduzione maniacale del timbro del Comune ne “certifica” ironicamente l’esistenza ufficiale, mentre le palline di polistirolo ingabbiate in basso alludono a una proposta di automuseificazione. Le Accumulations del francese Arman ottenute con tubetti di colore, cuscinetti a sfere, palle di biliardo, rottami di pianoforti e di violini raccontavano polemicamente il plot triturato dal consumismo contemporaneo; il pennello messo da Cavazzon in bella vista tra i cascami dice, invece, l’intendimento di reagire a tutte le omologazioni affermando polemicamente la propria identità creativa.

LICIO DAMIANI
Cavazzon: la bellezza ricreata

Un sottile gioco d’infingimenti, di rinvii, di rimandi ironici. Romanticismo, estrema purezza formale e voglia di gioco, la citazione perfetta fino al virtuosismo e la parodia della memoria. Nelle splendide Veneri di Giovanni Cavazzon l’arte guarda se stessa, si esibisce e si confuta innescando un processo sofisticato di speculazione mentale.
Stabilitosi nel 1965 in Friuli, Cavazzon risente della formazione avvenuta a Parma di maestro d’arte in scenotecnica. Dalle
Finestre paesaggistiche “ricamate” di motivi naturalistici in cui, spesso, emergevano le tornite erotiche suadenze di evanescenti Baccanti è passato alle veneri voluttuose e insieme algide, riportate alla contemporaneità come attraverso un ingannevole gioco di specchi, di travestimenti. La bellezza assoluta riletta alla maniera del reperto museografico.
Ponendosi in una posizione diversa rispetto a quella degli autori citazionisti e concettuali degli ultimi decenni del Novecento, per i quali i riferimenti agli artisti antichi, sganciati dal contesto originario e ricomposti arbitrariamente, da un lato denunciano il vuoto spirituale che angoscia l’uomo contemporaneo, dall’altro sottolineano l’impossibilità di leggere le opere di epoche trascorse nel loro autentico significato originario, di farne qualcosa di più di un mero riferimento erudito attraverso il quale tentare vanamente di colmare un vuoto, Cavazzon si rifà all’opera museificata per enuclearne la persistente forza di attrazione; la estrae dal congelamento cui è condannata; tenta di farla rivivere, di ricrearne il mito. Con leggerezza, in una sorta di disincanto-incanto.
Il procedimento è complesso, anche tecnicamente. Il pittore realizza la messa in scena di un “evento” con effetti teatrali.
Il prologo è costruito con una serie di studi preparatori affidati a un disegno limpido d’impronta neoclassica. Sono particolari di figure, analisi di mani, di braccia, di volti, frammenti di corpi. La linea segue andamenti fluidi, netti, leggeri, come incisi in trasparenza, il chiaroscuro e il tratteggio rilevano la realtà attraverso la visione algida dell’esercitazione accademica. Bravura e affettazione esibita.
Eppure dal calco traluce come una nostalgia, un desiderio di possesso totale, un bisogno di fuga nella perfezione dell’anacronismo per ritrovare la scintilla di un’emozione. E’ il tentativo di recuperare – soprattutto attraverso la purezza di Ingres, uno dei pittori simbolo che costituiscono la trama di fondo di tutta la cultura europea – una visione di ordine e di armonia perdute nella nostra contemporaneità confusa. Le immagini non possono che essere diafane come ombre di un mondo perduto; risplendono di una luce irreale, si propongono quali modelli di una visione morganatica. La loro assoluta purezza si dissolve nell’illusione.
L’armonia musicale del disegno innerva anche le opere compiute. Il colore si rivela un accessorio, svolge una funzione di controcanto, è più che altro nota evocativa nella sua rarefatta preziosità sfuggente. L’elemento cromatico non costruisce la “realtà” della pittura. Radice portante resta la memoria grafica. Inoltre Cavazzon non usa la tela, ma grandi fogli di carta che vengono soltanto successivamente intelati. A dire vieppiù di un’operazione creativa esaurita
ab initio.
La novità, il rapporto con l’attualità, emergono dalla “presentazione” o, meglio, dall’“ambientazione” dell’opera. L’immagine viene inserita in una sorta di scatola lignea, o cassa d’imballaggio. L’allusione è al trasferimento dei capolavori del passato destinati a grandi mostre che attraggono l’isteria delle masse e il cui valore storico-estetico passa in secondo ordine rispetto al “fattore-moda”. La loro titolazione in calce richiama i caratteri usati dagli spedizionieri. I granelli di polistirolo colorato ammassati lungo il lato inferiore del quadro ricordano le precauzioni usate per salvaguardare il tesoro. La qualità intrinseca non conta. A tener banco è la garanzia d’autenticità. Ecco, allora, la contraffazione irridente e goliardica di timbri e sigilli di gallerie civiche con tanto di stemmi comunali. A contare, per l’effetto-massa, è la certificazione di qualità, non la qualità in se stessa. Come una qualsiasi merce. L’arte si pone sul mercato costretta a rinunciare agli intrinseci contenuti ideali.
Dalle casse aperte nascono le Veneri: la
Venus cerulea, la Venus rosea, la Venus eburnea, la Venus mixta, laNascita di Venus. La cadenza dei titoli sembra alludere a una litania pagana. E qui il gioco si fa ancora più complesso e intrigante. Lo splendore dei corpi si genera inizialmente da modelli tratti dall’arte classica: la Venere di Prassitele variegata d’incrostazioni marmoree, che la tradizione vuole ispirata al glamour erotico della cortigiana Frine, la Venere di Botticelli, le dee lucenti assise su letti di nubi nelle festose allegorie tiepolesche. Ma il modello, talvolta nella medesima composizione, si duplica e si triplica in una corporeità tattile, quasi che dal conio artistico si riproducesse per clonazione una forma tutta carnale da godere nella pienezza dei sensi. La liofilizzazione consumistica cui la contemporaneità ha ridotto l’opera d’arte non ne soffoca il potere seduttivo.
A volte l’omaggio ai capolavori del passato si fa esplicito, come nelle riletture della
Bagnante di Valpinçon di Ingres e del nudo femminile ne Le Déjeuner sur l’herbe di Manet cui Cavazzon – diversamente dall’originale – toglie qualsiasi accenno a una possibile integrazione con la natura, inserendo acollage una mela sfacciatamente artificiale ritagliata su compensato. In entrambi i casi l’iconografia è volgarizzata secondo schemi di cartellone pubblicitario buono per prodotti cosmetici; ma è proprio in virtù di questo tramite che essa ripropone l’insinuante carica sensuale. E la striscia di granelli di polistirolo dipinti d’azzurro o di verde, pur non rinunciando a rivelarsi per quella che è, raggiunge l’effetto arioso di onde marine o di lingue di prato: la finzione ammicca all’esito illusivo.
Nei quattro nudi, due a due speculari, nella serie
Venus night and day la stessa immagine da un lato si riveste di colori: tagli di nero-velluto, gli incarnati risentiti, gli sprizzi di bianco argento delle lenzuola, le “finestre” di verdi-zenzero e di azzurri a inquadrare la figura dai contorni profilati. Il taglio è quello della tavola sgargiante da fumetto che rappresenta donne mascherate protagoniste di misteriose avventure. Accanto, il disegno in bianco e nero riporta il “feticcio” dell’immaginazione a una disadorna consistenza realistica, anche se accademicamente sublimata.
Ne
L’Estate e l’inverno di Venus vengono larvatamente richiamate Le tre età della donna di Klimt. L’Estate è un opulento e smagliante, ampio e imponente, corpo femmineo disteso nell’offerta di sé, canto dispiegato del godimento e dell’estasi sensuosa che l’effusione incandescente dei rossi rende ancor più eccitante: un incombente irresistibile richiamo al piacere. Simboleggia L’Inverno una vecchia triste, smagrita, cadente; il corpo s’incurva su un tronco d’albero nel quale comincia a dissolversi. L’arco della vita sta per concludersi e la carne macerata è prossima a tornare a confondersi, lucrezianamente, nella natura: Haud igitur penitus pereunt quecumque videntur, / quando alid ex alio reficit natura, nec ullam / rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena (Non ciò che sembra perire, dunque, perisce del tutto, / perché rifà la natura cosa da cosa, e non vuole / che una ne nasca, se un’altra non la soccorra morendo), per citare il poeta del De rerum natura.
Cavazzon sembra rimanere irretito nella trama da lui stesso intessuta. La C
reazione di Venus riprende il tema del “pittore e la modella” abbondantemente svolto, con inesauribili variazioni, nel lungo cammino della storia dell’arte: dal mitico Apelle a Picasso. La modella, alla quale l’artista ridà soffio vitale inserendola nella propria opera, è la donna amata: ri-creazione e trasfigurazione. L’autore, attraverso la reinvenzione fantastica, si appropria della persona reale, la eleva ai vertici della poesia per “possederla” pienamente. Addentrandosi nei sentieri della finzione approda alla pienezza dell’essere.
Il capitolo più spettacolare e complesso è quello, recentissimo, delle “casse-sculture”. Ad aprire la serie di nuove ricerche è, ancora, il tema della
Creazione. Dal contenitore d’imballaggio richiamante una vasca riempita di un mare di polistirolo, la sagoma dell’artista ritagliata nel legno in veste di poeta ellenico si protende con enfasi di gesti verso il fondo-velario che lascia intuire l’apparizione diafana della dea.
Le due opere arricchiscono l’idea di partenza di intriganti suadenze. Nel dialogo con i personaggi mitici femminili entrano incantati profili di figure maschili. In
Paride e Afrodite viene rievocata la leggenda della fatale gara che indusse il giovane figlio di Priamo ad assegnare la mela d’oro della bellezza alla Signora dell’Amore, ottenendo in compenso il dono di Elena. La silhouette di Paride si intinge di ombre e di oscurità, contrastanti con l’eterea grazia della figura femminea, a presagire le conseguenze tragiche del gesto per la città di Troia.
In
Apollo e Dafne la ninfa trasformata in alloro nell’estremo tentativo di sfuggire alla violenza seduttiva emerge lieve e aerea dall’indefinito fondo turchese, opponendo al nume il gesto di rifiuto. In contrasto con la sua carnalità idealizzata secondo schemi che paiono nutrirsi della nostalgia di iconografie da belle époque, la brutalità del dio è riassunta nell’inespressiva sagoma color ocra, identificata soltanto dalle scritte “commerciali” che l’attraversano; in sottesa polemica, forse, con l’erotismo consumista del nostro tempo, che attualizza la favola antica.
La sequenza delle tre composizioni offre un “colpo da maestro” di grande suggestione teatrale, riproponendo, in un allestimento scenografico strettamente correlato alla contemporaneità, fiabesche suggestioni depositate nella memoria.
Infine, con l’
Autoritratto, l’autore appone la firma ai propri labirintici meandri creativi, forma esemplare per osservazione penetrante e decisione impeccabile nella caratterizzazione fisionomica e introspettiva, a sua volta sottesa da ironiche impennate. Anch’egli, per “esistere” socialmente, necessita di una certificazione ufficiale; ecco, allora, la riproduzione del timbro del Comune, mentre le palline di polistirolo ingabbiate in basso alludono una “proposta” di automuseificazione. le Accumulations del francese Arman ottenute con tubetti di colore, cuscinetti a sfere, palle di biliardo, rottami di pianoforti e violini raccontavano polemicamente il plot triturato dal consumismo contemporaneo. Il pennello messo da Cavazzon in bella vista tra i cascami dice, invece, la volontà di reagire a tutte le omologazioni producendo bellezza.


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