LICIO
DAMIANI
I ritratti di Cavazzon
Le
avanguardie storiche del Novecento sembravano aver eclissato, con
il realismo, la ritrattistica d’arte – sia in pittura, sia in
scultura e persino nella fotografia – intesa quale
rappresentazione ideale di un personaggio. Il fotografo era il più
delle volte chiamato a realizzare una ritrattistica di consumo, di
cronaca o burocratica, da pubblicare sui giornali, da inserire nei
documenti o, nel migliore dei casi, da trattare come un frammento
di quel tempo perduto che ognuno di noi desidera recuperare. In
pittura scampoli di ritratti – esemplari le distorsioni e le
deformazioni cubiste di Picasso – abbandonato ogni pur minimo
interesse per la verosimiglianza fisionomica, puntavano a
comunicare “in soggettiva” l’aura psicologica ed emotiva del
soggetto, così come percepita dall’autore.
Nondimeno,
sebbene in ombra rispetto a un “ufficiale” impegno, la
richiesta del ritratto tradizionale non è mai venuta meno. Forse
perché il ritratto dipinto ha una maggiore parvenza di “durata”,
nobiltà, aulica dignità e sembra assicurare rispetto alla
fotografia (anche se non sempre è così) una maggiore libertà
d’interpretazione. L’uomo e la donna in posa poco conoscono
del proprio aspetto, vivendo nella proiezione di un ideale
talvolta confermato, più spesso negato, dell’immagine colta di
sfuggita allo specchio, e allora desiderano riscontrare l’immagine
ideale di sé nell’opera dall’artista col quale intessere un
dialogo interiormente espressivo.
Le radicali modificazioni
subite negli ultimi anni dalla ricerca estetica, l’affermazione
del concetto secondo cui “tutto è arte”, le tante correnti di
rivalutazione dell’oggettività hanno peraltro riportato alla
ribalta l’espressione realistica. E ci sono sempre di più
persone che amano tornare al ritratto dipinto non soltanto per una
sorta di compiacimento autoreferenziale, ma per un modo
intellettuale diverso di guardare alla pittura. La quale pittura
si alimenta a una pluralità di ibridazioni autonome, ricorrendo
ad apporti eterogenei del mondo produttivo, dalla grafica
pubblicitaria al cartellonismo. Si pensi alle
serializzazioni-feticcio di Andy Warhol, al recupero “alto”
del fumetto secondo un’ottica analitica e dilatante
(Lichtenstein), alla mimesi fra pittura e dato meccanico proprio
della fotografia e degli altri linguaggi di comunicazione di massa
(iperrealismo, citazionismo riproduttivo di capolavori del
passato, virtuosismi al limite di un trompe-l’oeil quasi
metafisico). Il rapporto fattosi stretto fra pittura e immagine
fotografica sembrerebbe voler riportare la pittura stessa a quel
realismo accademico precedente la rivoluzione impressionista o,
almeno, aderire spesso polemicamente a uno scrupolo di diligenza,
quasi con l’intenzione di mettere in crisi il mito della
perfezione tecnica.
In questo senso, i ritratti di Giovanni
Cavazzon sono esemplificativi di una rilettura del classico
estremamente attuale. Diafani come ombre di un mondo intoccato e
lontano, risplendono nell’armonia musicale del disegno di una
luce irreale proponendosi quali modelli di una visione
morganatica. La loro assoluta purezza si dissolve nell’illusione.
Il colore svolge una funzione di controcanto, nota evocativa nella
sua rarefatta preziosità sfuggente, oppure si impronta sulla
traccia di riferimenti antichi; la scelta non è mai casuale:
viene ispirata e suggerita dall’ambientazione, dal carattere,
dal “tono” psicologico del soggetto.
A volte, come nelle
due Sorelline Amodio, le emulsioni a fraseggi patinati di azzurri
fondi, di morbidi chiaroscuri bruni, di abiti soffici di velluti e
sete, d’incarnati lucenti di pastello, sembrano mimare
aristocratiche foto acquerellate del primo Novecento. Il Ritratto
di Emilia richiama atmosfere fiamminghe: la figura sbalzata dal
fondo scuro s’impernia sul volto investito di luce arcano e
fascinoso; le frange sparse dei lunghi capelli corvini,
riverberate di blu, si partiscono a mo’ di sipario rivelatore di
un’apparizione; le mani eleganti si abbandonano mollemente sulle
ginocchia: lo smeraldo dell’anello al dito è altro punto di
convergenza visiva.
E una spiritualità tesa raccoglie il
meditativo profilo di Paola Borboni. Scompigliano la chioma
ventosa delle tre Sorelle di Pordenone i biondi arpeggi serpentini
della Primavere e della Venere di Botticelli, evidenziandone la
temperie di fremente capricciosa freschezza, mentre la testa
volitiva del Giovane pordenonese s’impone con l’orgogliosa
qualità di un ritratto di Antonello da Messina, della cui
tavolozza il particolare della camicia richiama i rossi corallini.
Nella Famiglia altoatesina dominano componenti cromatiche calde
d’ascendenza nordica, intrise di echi bruegheliani.
L’eclettica
rapinosità di tecniche viene confermata dalle immagini multiple
mutuate dal dinamismo cinematografico, là dove Cavazzon, per
cogliere del soggetto la molteplicità di espressioni che
trapassano nell’attimo, duplica o triplica i volti nella
medesima composizione. Ed ecco, allora, la sequenza dei Tre
momenti di Giorgio Celiberti, delineati a matita e a sanguigna con
limpido disegno d’impronta leonardesca; o il Triplice ritratto
dell’attore Gastone Moschin, la cui impostazione ricorda il
Triplice ritratto di orefice di Lorenzo Lotto; o, ancora, le strip
ammiccanti delle Teste di bambini di trasparente grafia. La
scomposizione del Ritratto di ragazza colombiana, addirittura,
riporta quale logo di riferimento uno spezzone di pellicola
filmica.
Sulla funzione semantica del particolare insiste il
Ritratto della pittrice Gina Roma: sul foglio neutro il primo
piano non finito del viso gioioso di creatività; sotto, secondo
una correlazione non spaziale, ma logica, le mani intrecciate nel
grembiale bianco di lavoro e in basso i pennelli infilati nel vaso
di terracotta.
Evanescente purezza rinascimentale sublimata
da effetti flou, quasi per analizzare mimeticamente le
virtuosistiche possibilità di tecnica fotografica, incide il
delicato Ritratto di Barbara dallo sguardo vivo e dolcissimo:
elegia della bellezza assoluta, segno forte di terrestrità
angelicata.
La Famiglia del calciatore Sensini, dalle cromie
leggere biondo rosate ai limiti del monocromo, è inserita in una
cassa-finestra: ne “difende” la privacy una vera tendina, che
l’osservatore può a piacimento scostare. Cavazzon usa spesso
inserire l’immagine in scatole lignee la cui titolazione in
calce richiama i caratteri usati dagli spedizionieri; è un mezzo
di straniamento, di presa di distanza dal soggetto, allusivo al
processo di mercificazione del prodotto artistico. Tale espediente
sintattico viene utilizzato anche nell’Autoritratto, esemplare
per caratterizzazione fisionomica e introspettiva; la riproduzione
maniacale del timbro del Comune ne “certifica” ironicamente
l’esistenza ufficiale, mentre le palline di polistirolo
ingabbiate in basso alludono a una proposta di automuseificazione.
Le Accumulations del francese Arman ottenute con tubetti di
colore, cuscinetti a sfere, palle di biliardo, rottami di
pianoforti e di violini raccontavano polemicamente il plot
triturato dal consumismo contemporaneo; il pennello messo da
Cavazzon in bella vista tra i cascami dice, invece, l’intendimento
di reagire a tutte le omologazioni affermando polemicamente la
propria identità creativa.
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LICIO
DAMIANI
Cavazzon: la bellezza ricreata
Un
sottile gioco d’infingimenti, di rinvii, di rimandi ironici.
Romanticismo, estrema purezza formale e voglia di gioco, la
citazione perfetta fino al virtuosismo e la parodia della memoria.
Nelle splendide Veneri di Giovanni Cavazzon l’arte guarda se
stessa, si esibisce e si confuta innescando un processo
sofisticato di speculazione mentale.
Stabilitosi nel 1965 in
Friuli, Cavazzon risente della formazione avvenuta a Parma di
maestro d’arte in scenotecnica. Dalle Finestre
paesaggistiche
“ricamate” di motivi naturalistici in cui, spesso, emergevano
le tornite erotiche suadenze di evanescenti Baccanti è passato
alle veneri voluttuose e insieme algide, riportate alla
contemporaneità come attraverso un ingannevole gioco di specchi,
di travestimenti. La bellezza assoluta riletta alla maniera del
reperto museografico.
Ponendosi in una posizione diversa
rispetto a quella degli autori citazionisti e concettuali degli
ultimi decenni del Novecento, per i quali i riferimenti agli
artisti antichi, sganciati dal contesto originario e ricomposti
arbitrariamente, da un lato denunciano il vuoto spirituale che
angoscia l’uomo contemporaneo, dall’altro sottolineano
l’impossibilità di leggere le opere di epoche trascorse nel
loro autentico significato originario, di farne qualcosa di più
di un mero riferimento erudito attraverso il quale tentare
vanamente di colmare un vuoto, Cavazzon si rifà all’opera
museificata per enuclearne la persistente forza di attrazione; la
estrae dal congelamento cui è condannata; tenta di farla
rivivere, di ricrearne il mito. Con leggerezza, in una sorta di
disincanto-incanto.
Il procedimento è complesso, anche
tecnicamente. Il pittore realizza la messa in scena di un “evento”
con effetti teatrali.
Il prologo è costruito con una serie
di studi preparatori affidati a un disegno limpido d’impronta
neoclassica. Sono particolari di figure, analisi di mani, di
braccia, di volti, frammenti di corpi. La linea segue andamenti
fluidi, netti, leggeri, come incisi in trasparenza, il chiaroscuro
e il tratteggio rilevano la realtà attraverso la visione algida
dell’esercitazione accademica. Bravura e affettazione
esibita.
Eppure dal calco traluce come una nostalgia, un
desiderio di possesso totale, un bisogno di fuga nella perfezione
dell’anacronismo per ritrovare la scintilla di un’emozione. E’
il tentativo di recuperare – soprattutto attraverso la purezza
di Ingres, uno dei pittori simbolo che costituiscono la trama di
fondo di tutta la cultura europea – una visione di ordine e di
armonia perdute nella nostra contemporaneità confusa. Le immagini
non possono che essere diafane come ombre di un mondo perduto;
risplendono di una luce irreale, si propongono quali modelli di
una visione morganatica. La loro assoluta purezza si dissolve
nell’illusione.
L’armonia musicale del disegno innerva
anche le opere compiute. Il colore si rivela un accessorio, svolge
una funzione di controcanto, è più che altro nota evocativa
nella sua rarefatta preziosità sfuggente. L’elemento cromatico
non costruisce la “realtà” della pittura. Radice portante
resta la memoria grafica. Inoltre Cavazzon non usa la tela, ma
grandi fogli di carta che vengono soltanto successivamente
intelati. A dire vieppiù di un’operazione creativa esaurita ab
initio.
La
novità, il rapporto con l’attualità, emergono dalla
“presentazione” o, meglio, dall’“ambientazione”
dell’opera. L’immagine viene inserita in una sorta di scatola
lignea, o cassa d’imballaggio. L’allusione è al trasferimento
dei capolavori del passato destinati a grandi mostre che
attraggono l’isteria delle masse e il cui valore
storico-estetico passa in secondo ordine rispetto al
“fattore-moda”. La loro titolazione in calce richiama i
caratteri usati dagli spedizionieri. I granelli di polistirolo
colorato ammassati lungo il lato inferiore del quadro ricordano le
precauzioni usate per salvaguardare il tesoro. La qualità
intrinseca non conta. A tener banco è la garanzia d’autenticità.
Ecco, allora, la contraffazione irridente e goliardica di timbri e
sigilli di gallerie civiche con tanto di stemmi comunali. A
contare, per l’effetto-massa, è la certificazione di qualità,
non la qualità in se stessa. Come una qualsiasi merce. L’arte
si pone sul mercato costretta a rinunciare agli intrinseci
contenuti ideali.
Dalle casse aperte nascono le Veneri: la
Venus
cerulea,
la Venus
rosea,
la Venus
eburnea,
la Venus
mixta,
laNascita
di Venus.
La cadenza dei titoli sembra alludere a una litania pagana. E qui
il gioco si fa ancora più complesso e intrigante. Lo splendore
dei corpi si genera inizialmente da modelli tratti dall’arte
classica: la Venere di Prassitele variegata d’incrostazioni
marmoree, che la tradizione vuole ispirata al glamour
erotico
della cortigiana Frine, la Venere di Botticelli, le dee lucenti
assise su letti di nubi nelle festose allegorie tiepolesche. Ma il
modello, talvolta nella medesima composizione, si duplica e si
triplica in una corporeità tattile, quasi che dal conio artistico
si riproducesse per clonazione una forma tutta carnale da godere
nella pienezza dei sensi. La liofilizzazione consumistica cui la
contemporaneità ha ridotto l’opera d’arte non ne soffoca il
potere seduttivo.
A volte l’omaggio ai capolavori del
passato si fa esplicito, come nelle riletture della Bagnante
di Valpinçon di
Ingres e del nudo femminile ne Le
Déjeuner sur l’herbe di
Manet cui Cavazzon – diversamente dall’originale – toglie
qualsiasi accenno a una possibile integrazione con la natura,
inserendo acollage
una
mela sfacciatamente artificiale ritagliata su compensato. In
entrambi i casi l’iconografia è volgarizzata secondo schemi di
cartellone pubblicitario buono per prodotti cosmetici; ma è
proprio in virtù di questo tramite che essa ripropone
l’insinuante carica sensuale. E la striscia di granelli di
polistirolo dipinti d’azzurro o di verde, pur non rinunciando a
rivelarsi per quella che è, raggiunge l’effetto arioso di onde
marine o di lingue di prato: la finzione ammicca all’esito
illusivo.
Nei quattro nudi, due a due speculari, nella serie
Venus
night and day la
stessa immagine da un lato si riveste di colori: tagli di
nero-velluto, gli incarnati risentiti, gli sprizzi di bianco
argento delle lenzuola, le “finestre” di verdi-zenzero e di
azzurri a inquadrare la figura dai contorni profilati. Il taglio è
quello della tavola sgargiante da fumetto che rappresenta donne
mascherate protagoniste di misteriose avventure. Accanto, il
disegno in bianco e nero riporta il “feticcio”
dell’immaginazione a una disadorna consistenza realistica, anche
se accademicamente sublimata.
Ne L’Estate
e l’inverno di Venus vengono
larvatamente richiamate Le
tre età della donna di
Klimt. L’Estate
è
un opulento e smagliante, ampio e imponente, corpo femmineo
disteso nell’offerta di sé, canto dispiegato del godimento e
dell’estasi sensuosa che l’effusione incandescente dei rossi
rende ancor più eccitante: un incombente irresistibile richiamo
al piacere. Simboleggia L’Inverno
una
vecchia triste, smagrita, cadente; il corpo s’incurva su un
tronco d’albero nel quale comincia a dissolversi. L’arco della
vita sta per concludersi e la carne macerata è prossima a tornare
a confondersi, lucrezianamente, nella natura: Haud
igitur penitus pereunt quecumque videntur, / quando alid ex alio
reficit natura, nec ullam / rem gigni patitur nisi morte adiuta
aliena (Non
ciò che sembra perire, dunque, perisce del tutto, / perché rifà
la natura cosa da cosa, e non vuole / che una ne nasca, se
un’altra non la soccorra morendo), per citare il poeta del De
rerum natura.
Cavazzon
sembra rimanere irretito nella trama da lui stesso intessuta. La
Creazione
di Venus riprende
il tema del “pittore e la modella” abbondantemente svolto, con
inesauribili variazioni, nel lungo cammino della storia dell’arte:
dal mitico Apelle a Picasso. La modella, alla quale l’artista
ridà soffio vitale inserendola nella propria opera, è la donna
amata: ri-creazione e trasfigurazione. L’autore, attraverso la
reinvenzione fantastica, si appropria della persona reale, la
eleva ai vertici della poesia per “possederla” pienamente.
Addentrandosi nei sentieri della finzione approda alla pienezza
dell’essere.
Il capitolo più spettacolare e complesso è
quello, recentissimo, delle “casse-sculture”. Ad aprire la
serie di nuove ricerche è, ancora, il tema della Creazione.
Dal contenitore d’imballaggio richiamante una vasca riempita di
un mare di polistirolo, la sagoma dell’artista ritagliata nel
legno in veste di poeta ellenico si protende con enfasi di gesti
verso il fondo-velario che lascia intuire l’apparizione diafana
della dea.
Le due opere arricchiscono l’idea di partenza di
intriganti suadenze. Nel dialogo con i personaggi mitici femminili
entrano incantati profili di figure maschili. InParide
e Afrodite viene
rievocata la leggenda della fatale gara che indusse il giovane
figlio di Priamo ad assegnare la mela d’oro della bellezza alla
Signora dell’Amore, ottenendo in compenso il dono di Elena. La
silhouette
di
Paride si intinge di ombre e di oscurità, contrastanti con
l’eterea grazia della figura femminea, a presagire le
conseguenze tragiche del gesto per la città di Troia.
In
Apollo
e Dafne la
ninfa trasformata in alloro nell’estremo tentativo di sfuggire
alla violenza seduttiva emerge lieve e aerea dall’indefinito
fondo turchese, opponendo al nume il gesto di rifiuto. In
contrasto con la sua carnalità idealizzata secondo schemi che
paiono nutrirsi della nostalgia di iconografie da belle
époque,
la brutalità del dio è riassunta nell’inespressiva sagoma
color ocra, identificata soltanto dalle scritte “commerciali”
che l’attraversano; in sottesa polemica, forse, con l’erotismo
consumista del nostro tempo, che attualizza la favola antica.
La
sequenza delle tre composizioni offre un “colpo da maestro” di
grande suggestione teatrale, riproponendo, in un allestimento
scenografico strettamente correlato alla contemporaneità,
fiabesche suggestioni depositate nella memoria.
Infine, con
l’Autoritratto,
l’autore appone la firma ai propri labirintici meandri creativi,
forma esemplare per osservazione penetrante e decisione
impeccabile nella caratterizzazione fisionomica e introspettiva, a
sua volta sottesa da ironiche impennate. Anch’egli, per
“esistere” socialmente, necessita di una certificazione
ufficiale; ecco, allora, la riproduzione del timbro del Comune,
mentre le palline di polistirolo ingabbiate in basso alludono una
“proposta” di automuseificazione. le Accumulations
del
francese Arman ottenute con tubetti di colore, cuscinetti a sfere,
palle di biliardo, rottami di pianoforti e violini raccontavano
polemicamente il plot
triturato
dal consumismo contemporaneo. Il pennello messo da Cavazzon in
bella vista tra i cascami dice, invece, la volontà di reagire a
tutte le omologazioni producendo bellezza.
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