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Giovanni
Cavazzon |
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FRANCO FERRAROTTI per "Inchiostro e pennino"
Dicono
che io sia uno scrittore prolifico, se non un grafomane
impenitente. In effetti, sotto il mio nome, i cataloghi registrano
un’ottantina di titoli. Ma i miei libri non sono libri. Sono i
capitoli di un libro che forse non sarà mai scritto. Non solo.
Non pigio i tasti, neppure quelli della vecchia macchina per
scrivere. Ma non sono per questo un luddista, un meccanoclasta.
Semplicemente, resto fedele all’essenziale: inchiostro, penna,
pennino, calamaio. Non so scrivere. La scrittura non mi ha ancora
catturato. Sono un devoto figlio dell’oralità contadina. Non
scrivo. Parlo con la carta. Il gracchiare del pennino è un
continuo sussurro sincopato. Il segno nero sulla carta è mio,
solo mio. Non è l’astratta, l’impersonale cifra di una
conversazione. È il marchio di un individuo – unico,
irripetibile, irriducibile ad altro, che per una volta passa su
questo pianeta e lascia la sua orma indelebile. |