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GIANLUCA
TORMEN
presentazione della mostra "Il linguaggio delle
apparenze - tra mito, anima e corpo"
Limana
(BL), 8 novembre 2008
“Se
vuoi ritrarmi, dipingi il suono”: con queste parole, in un
epigramma del poeta greco Decimo Ausonio, la ninfa Eco sfida il
pittore ad infrangere le barriere poste dalla natura all’arte:
raffigurare l’immateriale, fissare cioè sulla carta ciò che
non ha forma né colore.
La storia di Eco, condannata a
dissolversi per amore in pura voce, s’intreccia
nelle Metamorfosi di
Ovidio a quella di Narciso, incarnazione di una bellezza immersa
fino alla morte nella contemplazione di sé. Ovidio lega così due
sfere, la parola e l’immagine, che da sempre si studiano a
vicenda e si misurano con diffidenza: ognuna tesa, di volta in
volta, a trovare la prova della propria superiorità o, al
contrario, un punto di convergenza.
Il testo ovidiano, da
secoli fonte inesauribile di temi e soggetti per la pittura
mitologica, costituisce anche per Giovanni Cavazzon un punto di
partenza irrinunciabile nel suo incessante percorso evolutivo. In
un’epoca che vede le neoavanguardie e gli sperimentalismi più
arditi imperare nell’universo artistico, con risultati a volte
discutibili, talaltra addirittura censurabili, il nostro artista
guarda al passato con nostalgica memoria e malinconia con la
certezza di ritrovare nell’insegnamento degli antichi un
possibile antidoto alla decadenza del presente. La ricerca del
nuovo passa sempre, più o meno consapevolmente, attraverso il
riconoscimento di qualcosa che è già avvenuto, e l’artista
tende così ad identificare se stesso come una forza nuova venuta
da un tempo antico. E la ricerca del tempo perduto resta, in
ultima analisi, la segreta ossessione che Cavazzon riversa in
pieno nella propria opera.
Numerose sono le citazioni e gli
indizi sparsi nelle sue creazioni, siano essi diafani disegni,
delicati pastelli, tempere o olii, che ci rimandano alla poesia
dei classici e alla pittura trionfale o intimistica del passato,
attraversando il tonalismo della pittura veneta di Tiziano e dei
suoi epigoni, il naturalismo caravaggesco e nordico della pittura
seicentesca, vibrante di chiaroscuri, le trasparenze liquide dei
pastelli e del cromatismo della pittura settecentesca di Tiepolo
sino al valore evocativo e orfico del colore di fine Ottocento,
per approdare agli sperimentalismi e alle commistioni di nuovi
materiali e tecniche.
“Il
linguaggio delle apparenze” è intitolata la monografica di
Cavazzon: linguaggio che oscilla tra mito, anima e corpo. Dal
materiale all’incorporeo, dunque, da ciò che suggestiona il
nostro sguardo a ciò che invece seduce la nostra anima, facendo
vibrare le corde più profonde del sentimento. Una perfetta
trilogia che trova il suo equilibrio naturale attorno al saldo
perno del disegno. È la tecnica grafica infatti che sta alla base
di tutte le sue creazioni, consapevole, come dovrebbe essere ogni
artista, che il disegno, secondo il precetto accademico
cinquecentesco, è il padre di tutte le arti. E col disegno inizia
non a caso la prima delle tre sezioni di questa affascinante
mostra. Affascinante perché raramente si assiste alla
celebrazione del bello, nella sua accezione classica, di
meditazione sulle forme ed esaltazione dell’armonia. Cavazzon sa
bene che cosa sia il bello e come si traduca in forma espressiva,
senza mai ingannare l’osservatore o convincerlo a vedere ciò
che non è. La purezza neoclassica e il nitore indecifrabile del
suo segno grafico sono la più eloquente dimostrazione di un
quotidiano esercizio di analisi, di sconfinato amore per la
propria professione e di armonia calata nella forma. Se molte sono
le citazioni e i rimandi, come si è detto, e altrettanto ampio è
il ventaglio delle correnti artistiche cui guarda il nostro
pittore: nondimeno egli non nasconde mai tali rimandi e ci offre
anzi tutti gli strumenti necessari per individuarli e poterci
compiacere di tale scoperta. Anche in questo quindi sta tutta
l’onestà intellettuale di Cavazzon e la sua correttezza nei
confronti di chi guarda.
La citazione del capolavoro o del
dipinto meno noto non mira ad accreditare la propria opera o a
restituirle un pregio che essa non avrebbe altrimenti. È semmai
la rielaborazione di un dettaglio, la spia che ci fa capire come
un motivo o un tema sia capace di dire qualcosa anche oggi, a
distanza di secoli, se ben rielaborato e ricontestualizzato. Negli
studi grafici che documentano la prima sezione di questa mostra
Cavazzon si sofferma su un dettaglio anatomico in particolare e
non restituisce alla figura intera la medesima importanza: le
sfumature del segno svaporano nel bianco della carta e il
dettaglio non diventa pertanto una citazione del tutto ma un
elemento che ci porta a ricostruire il tutto solo con
l’immaginazione. Una mano, un braccio, un profilo di volto, sono
sufficienti a sintetizzare un corpo dalle armoniose fattezze,
quasi fossero disiectae membra di un’ideale statua antica giunta
a noi frammentata dopo un doloroso naufragio ma di cui possiamo
ancora oggi immaginare l’autentica e primigenia bellezza. E il
corpo femminile è dunque cardine nella pittura di Giovanni
Cavazzon, analizzato e riprodotto con un segno delicatissimo, al
pari di una carezza, con un tratto così sottile da sembrare
inciso nel vetro. La sua abilità grafica e pittorica lungi dallo
scadere mai nello sterile compiacimento virtuosistico e
nell’autocelebrazione è semmai la riprova di una volontà tesa
a fuggire la perfezione fine a se stessa, l’amore dell’arte
per l’arte che nulla sa produrre se non riportata alla
contingenza concreta della realtà e del momento storico.
Dal
ricordato poema di Ovidio provengono invece i temi più
impegnativi e complessi della sua arte che aprono la seconda delle
sezioni: i teatri del mito, quelle ardite e originalissime
installazioni di pittura, incisione e scultura che sembrano voler
vagheggiare l’aspirazione barocca all’unitarietà delle arti.
E qui emerge appieno in tutta l’evidenza la sua giovanile
formazione di scenografo, di creatore di illusioni e suggestioni
visive. Teatri del mito ma anche della memoria, dall’Afrodite
che si accinge a ricevere il dono della mela d’oro di Paride, al
rifiuto silenzioso ed eloquente del gesto di Dafne che allontana
Apollo per dare avvio alla metamorfosi del proprio corpo in
alloro. In entrambi i casi, la figura maschile è sempre esterna e
in controluce rispetto a quella femminile, quasi a manifestare
consapevolmente il proprio secondario ruolo nella vicenda.
Immagini racchiuse in una cassa lignea che è richiamo anche a una
realtà diversa dalla nostra, un atemporale visione del mito che
si rinnova così quotidianamente e ciclicamente nella nostra
esperienza di vita, supplendo con l’immagine là dove non sa
giungere la metamorfosi della parola.
L’arte per Cavazzon è
dunque uno schermo protettivo, un contenitore privilegiato che
salva dall’annichilimento e dall’inarrestabile disfacimento. È
come una tuta d’amianto che permette di attraversare il fuoco
senza essere distrutti. Un fuoco benefico che infatti egli usa con
sapienza e abilità nelle incisioni pirografiche su tavole di
pioppo, quelle piccole, ad esempio, con dettagli naturali, con
paesaggi, con scorci di cancelli, finestre, portoni, girasoli e
balconi, delicate come compiuti idilli, realizzati col consueto
tratto inciso di variabile intensità e profondità, e con tocchi
improvvisi di accesa cromia, il tutto suggellato dal fuoco.
Piccoli esercizi di stile carichi però di naturale poesia in
grado di evocare un mondo perduto che l’artista cerca di far
riaffiorare dalle pieghe più nascoste della memoria, e non
proiezioni in un sogno irreale, riportate alla realtà proprio
grazie a minuscoli dettagli che contestualizzano l’immagine e la
rendono immediatamente riconoscibile a chi ha vissuto in quei
posti o li ha solo attraversati. Emblemi di quel microcosmo che
ognuno porta dentro di sé, sintesi della complessità e della
ricchezza delle personali esperienze che costituiscono l’universo
di forme coltivate nell’anima e nella mente da ciascuno di noi,
capaci di lasciare indelebili impronte riconoscibili anche a
distanza di tempo.
Ma la tecnica pirografica è utilizzata
con più stupefacenti effetti nelle tavole di maggiori dimensioni,
di cui sono esposti due interessanti esemplari raffiguranti
Baccanti. E proprio qui, in uno di essi, la canestra di frutta in
primo piano è dichiarata ed esplicita menzione dell’omonimo
dipinto caravaggesco dell’Ambrosiana, che affianca i corpi
sensuali ma mai volgari delle baccanti, figure tra le più
seducenti e cariche di eros della mitologia antica, emblema di
irrazionalità e tensione alla compiutezza del divino. Figure
animate da un suono impercettibile che le fa muovere e danzare,
con le chiome scomposte anche dal vento, dallo sguardo sensuale e
provocante, consapevoli della propria bellezza. Un soggetto
difficile, quello delle Baccanti, per la forte carica di
irrazionalità insito nel tema stesso, in quel tentativo operato
dall’artista di fondere le differenti sfere del conscio e
dell’inconscio, del reale e dell’ideale, dell’apollinea
bellezza esteriore e della dionisiaca tensione spirituale, il
tutto armonizzato dal consueto segno grafico che sintetizza
universi di opposta natura.
Ma è con la terza ed ultima
sezione, quella dei ritratti, che siamo introdotti nel più
rappresentativo e compiuto genere di Cavazzon, quello a lui più
congeniale e di felice esito espressivo e narrativo. Fornire un
rifugio per ingannare la morte, sconfiggere la decadenza e l’oblio
sono compiti del ritratto, sia esso dipinto, scolpito o affidato
ai versi di una poesia che – “monumento più duraturo del
bronzo” secondo la celebre espressione di Orazio – potrà
forse resistere anche oltre il disgregarsi del marmo ridotto in
polvere o della tela lacerata dal tempo. Ma il ritratto garantisce
vera immortalità, dunque, o piuttosto solo pietosa illusione? Il
ritratto indica imperiosamente il luogo del simbolo. Se la sua
presenza in un altare, in un dipinto, in un bassorilievo o in un
affresco, trattiene, fissa così fortemente la nostra attenzione,
se imprigiona il nostro sguardo con il suo singolare potere di
siderazione, è appunto perché, inserito in una teoria di volti
indifferenti e anonimi, il ritratto è di una evidenza che impone
la convinzione. In altre parole, la virtù del ritratto è di non
poter mai essere preso alla lettera: non assume il suo pieno e
compiuto senso se non quando prende posto nel luogo dell’assenza,
quando è là al posto di colui o di colei che non sarà più là
per nessuno. Non vi è ritratto se non in questo esitamento
simbolico.
La sezione dei ritratti è senza dubbio la più
interessante, la più completa e rappresentativa dell’arte del
nostro artista. Ritratti ad olio, tempera, grafite, tecnica mista,
su tela, tavola, carta, sanno restituire la complessità e la
capacità del pittore di adattare il soggetto al miglior supporto
possibile, a quello che meglio sappia interpretarne l’essenza. È
un continuo dialogo tra ricerca fisionomica e psicologica, fra
trasposizione delle forme visibili e percezione sensoriale di ciò
che non vediamo, l’anima. Certamente fra i generi più nobili
della pittura di ogni tempo, e anche fra i più difficili, il
ritratto è declinato da Cavazzon con una studiata e
personalissima grammatica delle forme che rimanda di volta in
volta il pensiero a modelli noti e celebrati o suggerisce
commistioni di stili ed epoche fra loro lontani, azzerando così
distanze cronologiche e abbattendo gli artificiali argini delle
correnti artistiche. Stupisce infatti la capacità con cui il
pittore sa passare da un’epoca all’altra e da uno stile
all’altro con invidiata naturalezza e disinvoltura. Colpiscono
nei suoi ritratti gli sguardi degli effigiati, occhi che invitano
a un confronto con l’osservatore, occhi che ci guardano e ci
scrutano mentre noi guardiamo, in un intenso e reciproco gioco di
sguardi e di specchi di rara intensità emotiva. Ritratti alteri e
fieri come quello della madre o di Emilia di superba finitezza
fiamminga, dalle impercettibili sfumature del nero e dai preziosi
dettagli sparsi nel tessuto pittorico, o ancora quello gioioso
della pittrice Gina Roma, composto in realtà da due ritratti fusi
assieme ove si mettono in evidenza le parti distintive del volto,
illuminato da un commovente e spontaneo sorriso, e delle mani, suo
strumento di lavoro. Non si può allora non rimanere colpiti dalla
capacità di Cavazzon di cogliere nel soggetto il più intimo e
impronunciabile segreto. Ancora i gruppi familiari, come quello
dei Doglioni, di un realismo al limite della tecnica fotografica,
o ancora quello di volti noti, e penso all’attrice Dalila Di
Lazzaro, dallo sguardo malinconico e dall’espressione quasi
impenetrabile. Per non parlare di quello di Paolina Mattiussi o
del pescatore ‘Ntoni, presente in ben due versioni, dominato
dalla nota cromatica del cappello, che si accende di un rosso
avvampante, così simile al copricapo dell’autoritratto di
Antonello da Messina alla National Gallery di Londra. Non meno
degni di menzione poi i bellissimi e teneri ritratti di bambini,
con il loro variare d’espressione, nel volgere di pochi istanti,
riprodotti in triplici ritratti espressivi dal pittore. Ma dal
realismo del volto Cavazzon arriva persino alla stilizzazione del
segno grafico nello pseudo ritratto di Bearzot: una sottile
silhouette e una pipa – memore di quella di Magritte –
sintetizzano con un incisivo tratto un volto, una storia, un
mito.
E ancora al mito rimanda la più spettacolare delle sue
installazioni: il carro di Apollo e la danza delle Ore, sospeso
nel vuoto, in alto, in uno spazio che non è più quello terreno e
che allude al viaggio, all’ascesa verso un mondo sconosciuto. Le
due Ore, Thallo e Carpo, che non alludono mitologicamente alla
scansione del tempo giornaliero, bensì alle stagioni dell’anno,
erano le guardiane del cielo, e quando gli dei passavano nei loro
cocchi allontanavano le nubi dai cancelli dell’Olimpo. Anche la
musica che le accompagna suggerisce questo connubio fra arti,
espressione perfetta e in sé compiuta della poetica dell’artista
la cui mano sembra essere stata guidata direttamente dalle Muse.
Quelle stesse Muse, divinità ispiratici e a protezione delle
arti, soggetto mitologico fra i più seducenti ma meno
rappresentati nella storia della pittura, che mi auguro – e qui
lancio una sfida aperta all’artista – ci voglia quanto prima
regalare nella sua personalissima interpretazione in un ciclo
organico e unitario espressamente dedicato ad esse.
Molto, e
bene, è stato scritto di lui da numerosi critici, più autorevoli
di me, sull’arte e la pittura di di Cavazzon. E molte sono state
le definizioni (peraltro efficaci e mai banalmente riduttive) di
volta in volta suggerite per tentare di definire la sua
espressione artistica e la sua complessa poetica. Data la vastità
di riferimenti nelle sue opere, la cultura figurativa smisurata
che lo caratterizza, le citazioni più o meno evidenti, credo
invece che Cavazzon sfugga a qualsiasi tentativo di facile e
riduttiva etichettatura, capace solo di limitare e ingabbiare, più
che celebrare, la sua straordinaria facilità traduttiva e la sua
illimitata generosità espressiva.
Vorrei quindi concludere
proprio con l’autoritratto del pittore, in realtà posto in
apertura della mostra. C’è chi ha scritto che conoscere se
stessi (o tentare di conoscersi) può essere fatale, come Narciso
ricordato all’inizio che muore proprio perché vuole conoscersi.
Ed è curioso l’estremo – e certo provocatorio – pensiero in
merito del premio Nobel turco Orhan Pamuk a proposito degli
artisti, pensiero ovviamente che risente della concezione
islamica, ovvero aniconica, dell’arte: “Nel giorno del
giudizio si chiamerà l’artista ad animare le forme che ha
creato. Ma non potendo animarle, sarà punito con le pene
dell’inferno”.
Lungi dal soffrire una così grave
condanna, Cavazzon si pone invece come un modernissimo Pigmalione,
che dà vita e spessore ai ritratti, tracciati anche su leggeri
fogli di carta. Con il suo autoritratto, intenso quant’altri
mai, che ci scruta mentre noi lo scrutiamo, e indaga la realtà
oltre il diaframma degli occhiali, l’artista si mette a nudo
davanti a noi e ci invita a indovinarne il suo più segreto
pensiero, consapevole che non saremo mai in grado di oltrepassare
il suo sguardo sornione e di sfida. La conferma a tutte queste
riflessioni è, e non può che essere allora, solo l’opera di
Cavazzon: è ad essa infatti che più di tutto egli assomiglia
davvero. È questo il suo più intimo e vero autoritratto, la sua
unica ed immutabile identità di artista.
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